Evasione, buona narrativa d’evasione. Così molti considerano l’opera di Simenon. E se ne comprendono le ragioni: la perfetta macchina del racconto, i pesi calibrati, le atmosfere fin troppo persuasive. E una scrittura limpida e vischiosa che impregna subito il lettore: lo immette d’un colpo nello stesso refolo di vento, negli stessi afrori, nelle camere affocate e nelle cucine squallide, nelle stesse luci lattiginose da cui sono avvolti i personaggi, e nelle loro più fonde ossessioni. Proverbiale è la ritualità del suo lavoro alla scrivania, e la vena inesauribile, gli eccessi mondani e alcolici, festosi o sprezzanti. Tutto, proprio tutto insomma, contribuisce al ritratto di un autore assolutamente consono alla borghesia e al suo intrattenimento, finanche nella condotta di vita, nel mito un po’ cupo, ma sempre attraente, del notturno sperpero di sé e della mattiniera infallibile produttività di scrittore avveduto.
Eppure, in molti racconti si avverte che questo giudizio è ingeneroso. Si avverte che non basta per Simenon parlare di narrativa d’evasione: l’artigianato e il mestiere non risolvono. Se ha dato al suo pubblico ciò che il pubblico di allora chiedeva, a chi lo legge a distanza di tempo, con il distacco della storicizzazione, può dare anche altro. In primo luogo, ha costruito un affresco socio-culturale esatto e ampio nato dall’aderenza della sua scrittura a moduli realistici e critici, attenti agli attriti tra classi e però piegati al male esistenziale. In secondo luogo, ha reso esemplari alcuni marginali: ossessivi, morbosi, introversi, frustrati. I decenni del Novecento che Simenon ha attraversato sono ora tagliati da luci radenti ora illividiti da riverberi sinistri, spesso avvolti in una nebbia malata, ovattati da una neve sporca correlativa del diffuso squallore. Gli uomini e le donne che abitano i suoi romanzi sono solitari, o solitari in coppia, in relazioni costrittive e malsane. Pagano con avvilimento la loro consapevolezza, l’essere a disagio nella propria pelle o l’aver capito il gioco di ruoli, averlo accettato rimanendone spettatori disillusi e silenziosi, estranei, e camuffati da gente ordinaria, di piccole vite e consuetudini logorate.

Le pagine di Simenon fanno serpeggiare l’amaro, un retrogusto metallico in tutto il secolo, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Se una ricostruzione economica è stata vagheggiata o politicamente orientata, fallita o negata è stata la ricostruzione morale, psicologica e culturale. Questo sembrano dire, spesso, l’individualismo e l’introspezione che dominano nei suoi romanzi, e le realtà claustrofobiche, le coppie strettissime, avvinghiate come a salvarsi da un mare in tempesta. Deliri a due morbosamente esclusivi, caparbi, dall’equilibrio talvolta fragilissimo.

Universo totalizzante e angusto è quello in cui vivono i due protagonisti del romanzo tradotto ex novo da Adelphi, dopo una prima edizione mondadoriana di più di cinquant’anni fa, La scala di ferro (collana «Biblioteca», traduzione di Laura Frausin Guarino, pp. 179, euro 18,00) scritto nel 1953. Anche questo è congegno di grande tenuta, esattissimo e duro, che non lascia conforto. Lo spazio è asfittico, e così la vita di Étienne, secondo marito di Louise, una donna dalle «forme generose e in un certo senso serene», proprietaria di una cartoleria-stamperia nei pressi di boulevard de Clichy. È l’inizio degli anni Cinquanta, l’arrondissement svela tratti popolari: dalle finestre della camera da letto si vedono le luci del luna park con tutta la sua «grossolana eccitazione»; i piccoli ristoranti e i caffè dei dintorni, a dispetto di certa mondanità parigina, somigliano a locali di campagna, tranquilli e confortevoli, come «una sala da pranzo di provincia». La vita di Étienne scorre placidamente: fa il rappresentante per la cartoleria della moglie. Sposati da quindici anni, consumano la loro esistenza in uno spazio «ridotto, tra quattro mura, sempre con lo stesso panorama davanti agli occhi e senza alcun contatto con il resto del mondo», fatta eccezione per un’unica coppia di amici, con cui giocano a belote il giovedì. Mai si contravviene alle abitudini.

Étienne e Louise si raccontano tutto, anche se «qualche volta, a forza di vivere insieme, si capivano senza aver bisogno di parlare». La comunicazione passa per segni convenzionali e muti, come quello, sensualissimo, di Louise quando si spoglia con le finestre aperte e le luci della camera spente, denudando piano «le sue carni di un candore riposante» mentre fuori freme una vita superficiale e gaia, e le luci del luna park roteano nella stanza «insieme ai fischi, al campanello della chiromante e alle grida delle ragazze sull’autoscontro». Tutta la loro vita ci è svelata per flashback, nella prospettiva inquieta di Étienne. Quando il romanzo prende avvio, siamo già a un passo dalla Spannung che invece si svolgerà in una lenta climax. Étienne, febbricitante come altri emblematici protagonisti di Simenon, è sul punto di comprendere quanto sta accadendo, di confessarsi ciò che per quindici anni i due si sono taciuti: la fine del primo marito, cui Louise ha indotto una morte lenta. La stessa che ora sta preparando a lui, che a suo tempo, correo, aveva finto di non vedere. Ma per ricostruire tutto occorrerà un montaggio di analessi sincopate e sfasate.

Come spesso in Simenon, anche qui notevole è lo straniamento sottile, nonchalant, della perfetta normalità: l’assillo del legame esclusivo vira impassibilmente e impercettibilmente nel crimine. I puntelli del loro mondo sono piccole ritualità rivelatrici, come quella, più volte reiterata, delle frasi della buonanotte. Per Étienne è impossibile, ormai, pensarsi senza Louise. Per lui ogni movimento della moglie è «magnetico, ogni piega del suo abito suggestiva». L’amore è fisico e animale, e per questo ingovernabile. La scrittura di Simenon è carnale: Louise ha piccole gocce di sudore sul labbro superiore, gocce che danno ai baci, nelle passeggiate d’estate, «un sapore particolare». Ha spesso «aloni di sudore sotto le ascelle», come pochi anni dopo avrà Gina, la bellissima e insaziabile moglie del Piccolo libraio di Archangelsk (1956), anche lui vittima, tradita, di un morboso attaccamento.

Mentre Étienne procede nella sua segreta e angosciosa inchiesta, sospeso tra desiderio di sapere e tentazione di lasciarsi morire, Louise rimane appassionata e algida, sfuggente e volitiva; entrambi incapaci di «vedersi come due nemici». Se la tessitura narrativa della Scala di ferro ha linearità disarmante, più complessi e involuti sono gli andamenti della memoria. Chiave interpretativa del vero tema del romanzo, la faglia dolorosa tra amore e comunicazione e il suo risolversi in morte, è la scala di ferro che collega camera da letto e negozio sottostante, stanza dell’amore e della morte e luogo della produttività borghese: quella scala ha nascosto i primi baci clandestini, quella permette ora alla laboriosa Louise di sorvegliare i peggioramenti del marito. Ma altre chiavi possiamo trovare in due titoli citati: Vent’anni dopo, i cui protagonisti, coetanei di Étienne, sono dipinti da Dumas «quasi come dei vecchi», e La vita degli insetti di Jean-Henri Fabre. Solo con quest’ultimo titolo possiamo illuminare certe ripetizioni, certe piccolezze e penombre nell’esistenza dei coniugi, solo con questo riferimento agli insetti possiamo intendere, credo, l’incolpevole sensualità di Louise, «piena di una vita irrefrenabile», orgogliosa dei propri seni e fasciata in un cappotto «stretto in vita e svasato sui fianchi», come un’ape regina che, sebbene infertile, non possa fare a meno di consumare un marito dopo l’altro, l’uno più giovane dell’altro.