Due mostre, una a Milano, presso l’appena inaugurato Museo delle Culture (Mudec), e l’altra a Roma, nelle sale dell’Ara Pacis, ci raccontano delle grandi esposizioni internazionali: momenti importanti della trasformazione urbanistica di queste due città e del rinnovamento delle arti.
Nel visitarle ci si accorge che sia Mondi a Milano, culture ed esposizioni 1874-1940 sia Esposizione Universale Roma, una città nuova dal fascismo agli anni ’60 si somigliano almeno per un aspetto: ambedue sono mostre di circostanza dettate dall’imminente apertura di Expo 2015. Entrambe si presentano come una raccolta di materiali e documenti eterogenei, di per sé anche interessanti, che purtroppo esulano dall’approfondimento e dalla completezza storiografia. Ben altra, infatti, è la loro finalità. Iniziamo da Roma.

L’attualità perduta
Già nel titolo è chiaro che la mostra non ha alcuna intenzione di indagare il passato più recente, né indicare il futuro urbanistico del quartiere Eur. Il percorso espositivo si ferma agli anni del boom economico, al periodo del suo capillare e anarchico sviluppo edilizio «senza un’idea, senza un disegno, senza un ruolo dell’urbanistica», come commentò Pierluigi Cervellati. Si trascurano, insomma, i più significativi fatti di cronaca e si evita di individuare il suo futuro urbanistico. Proprio quelle situazioni alle quali ancora mostravano curiosità e interesse, alla fine degli anni ’80, architetti e storici.
Lo testimonia il mirabile saggio di Italo Insolera e Luigi Di Majo dal titolo eloquente: L’Eur e Roma, dagli anni Trenta al Duemila (1986). Tuttavia, seppur la finalità della mostra è celebrativa, il contenuto non può che farci riflettere sugli effetti e sul significato sociale che sempre hanno prodotto le esposizioni universali: anche quando mancano l’evento, com’è accaduto per il fascismo con quella del 1942 che la guerra impedì e che doveva coincidere con il ventennale dell’ascesa al potere di Mussolini.

Si sono dunque messi da parte i fatti dell’attualità come se non riguardassero il mestiere dello storico. Si è evitato, così, di parlare della Nuvola, il Centro Congressi di Massimiliano Fuksas, che dal 2000 attende di essere terminato, così come degli sciagurati atti dell’amministrazione comunale che hanno manomesso, senza alcuna ragione, parti importanti del quartiere.
Nessun cenno si fa sull’abbattimento del velodromo, deciso dalla giunta Alemanno per un’insensata lottizzazione che solo un’accusa di disastro colposo per amianto ne ha per ora evitata l’esecuzione, così come sono stati dimenticati i progetti ancora in stallo, oltre del Centro Congressi anzidetto, dell’Acquario al Laghetto oppure degli edifici già esistenti e ora scheletriti, come le Torri del Ministero delle finanze su via Cristoforo Colombo e il palazzo della Banca Intesa San Paolo di viale Rembrandt. Tutti episodi di un’unica lunga storia che testimoniano dell’assoluta mancanza di una coerente e ordinata idea di progettazione urbanistica dell’area.

eur017

Una grande estraneità
È dagli anni della ricostruzione, infatti, che il quadrante sud-est della capitale è sottoposto a ogni genere di scriteriata gestione che non può certo essere nascosta anteponendo, come fa in catalogo (De Luca Editori d’Arte) il sindaco Marino, la «straordinaria scenografia» che qui ci ha lasciato la modernità: prima fascista e poi dell’International Style.
Insistere sulla «magia» di quelle architetture è negare la loro mediocrità sia perché ieri, il piano autocelebrativo e imperiale del fascismo, produsse «la pompa del monumentale razionalizzato» (Giuseppe Pagano), sia perché oggi, una singolare commistione di tipi edilizi sono come i precedenti del tutto estranei non solo alla città, ma persino al contesto urbano che gli gravita intorno: forse è questa la vera «anomalia permanente dell’Eur» di cui parla Vittorio Vidotto, storico e curatore dell’esposizione.
Appare evidente che alla retorica si ricorre non solo per descrivere il presente, ma anche per narrare gli episodi della storia, che andrebbero illustrati diversamente.
Cos’è d’altronde questo continuo richiamo alla metafisica che dai disegni di Marcello Piacentini, Gaetano Minnucci o Giulio Pediconi fino alle pellicole di Antonioni o Rossellini, è ancora per molti la cifra stilistica del quartiere? Questa dimensione straniante si avvertirebbe ancora oggi tra i viali e gli slarghi dell’Eur come fosse questo il risultato voluto dagli architetti e dagli artisti del Ventennio.
Eppure si potrebbe citare Elias Canetti per comprendere come l’edificazione dell’Eur – analogamente ai progetti edilizi di Hitler – nasca per la massa che deve crescere e ripetere le proprie azioni adunandosi nelle vie monumentali o negli auditori e non certo perché le architetture stiano isolate in algide «piazze d’Italia».

Veduta aerea dell'EUR nel 1953
Veduta aerea dell’EUR nel 1953

«Queste costruzioni e questi impianti – scrive Canetti – nella mente dell’edificatore sono pieni di masse che si differenziano a seconda del recipiente che le contiene». Volumi ridotti a ruderi che, nel dopoguerra, saranno completati e le aree lottizzate con infrastrutture e servizi per accogliere le residenze e il terziario in crescita della città.
Il regista dell’intera operazione è Virgilio Testa, già collaboratore di Bottai nel 1935 nel promuovere l’esposizione universale, e ora, dal 1951, commissario dell’Ente Eur. In continuità con il passato chiamerà Marcello Piacentini per configurare insieme un altro destino per la «nuova Roma»: dall’abortita «città monumentale», cambiando di segno, è concepita la «città-parco» da destinare ai ceti borghesi della capitale e da costruire seguendo le regole (le sole) della rendita immobiliare.

I padiglioni esotici
Nulla sembra essere cambiato fino ad oggi. Pianificare la crescita della città è sempre stato e continuerà a essere il misurarsi con gli interessi affaristici che vi dimorano.
Prendiamo il caso di Milano. Eloquente, in tal senso, sono le aspettative economiche che si concentrano nell’area scelta per l’Esposizione Internazionale del 1906 e che da allora vi permangono fino agli anni recenti, con lo sviluppo dei tre grattacieli che lì si stanno erigendo. La mostra milanese appena vi accenna, preferendo orientare lo sguardo (Antonello Negri) sul confronto, pur interessante, tra i padiglioni dei diversi paesi ospiti: «stile moderno» (Liberty), revival storicista o esotismo orientale o africano.
Si rileva la «stridente convivenza» tra la modernità rappresentata dalla Galleria del Lavoro (la già nota Galerie des Machines d’oltralpe), dalla ferrovia sopraelevata che collega le due aree espositive e dalla contemporanea apertura del Traforo del Sempione, e gli «esotici localismi» degli espositori extraeuropei e dei villaggi-spettacolo (La via del Cairo, il Villaggio eritreo). Si tralascia la progressiva trasformazione che ha interessato quella parte di città, eppure sulle piazze d’armi e i parchi cittadini milanesi si giocano una serie di particolari vicende che si intrecciano con la storia delle esposizioni internazionali, in particolare quella del 1906.

Occorre ricordare che alla Società Fondiaria Milanese non riuscì di costruire sull’ex piazza d’armi a ridosso del Castello Sforzesco, anche se Cesare Beruto, nel 1884, non lo escluse redigendo il suo piano della città. Se non fosse stato per il Consiglio Comunale che decise per il Parco – «una zona per le passeggiate» (de Finetti) – oggi si avrebbero una serie di blocchi edilizi distribuiti su una scacchiera senza la disponibilità di un’area libera e centrale.

L’Esposizione Internazionale del 1906 gioca un ruolo particolare perché diversamente da quelle che l’hanno preceduta – nel 1874, nel 1881 e nel 1894 – non occupa l’area dei giardini pubblici di Porta Venezia, ma si divide tra il Parco Sempione e la nuova Piazza d’armi che il piano del Beruto colloca come elemento simmetrico al Cimitero Monumentale separati dal Corso Sempione.
Sarà questa estesa area, dalla forma quadrata, quella che dal 1923 accoglierà i padiglioni permanenti della Fiera campionaria assecondando le direttive del fascismo per i grandi contenitori monofunzionali (Piano Albertini). Con la Fiera si modifica la formula di attrazione dei visitatori: la sostenibilità economica dell’evento non è più data dal flusso dei visitatori richiamati dalla novità del prodotto, come accadeva nelle precedenti manifestazioni, ma dal maggior numero di espositori. «L’Esposizione del 1906 – scrive Enrico Decleva in catalogo (24Ore Cultura) – conclude il ciclo iniziato trentacinque anni prima» e si presenta come l’avvenimento decisivo verso nuovi modelli espositivi (tra questi anche la Triennale) ideati per diffondere «i messaggi e le suggestioni della modernità».

Milano_Esposizione Internazionale del 1906_ Fotografia del parco aerostatico
Milano, Esposizione Internazionale del 1906. Fotografia del parco aerostatico

Il museo che verrà
È chiaro che la mostra collocata nel nuovo Museo delle Culture e inaugurata in parallelo con quella dedicata all’arte africana (Africa, la terra degli spiriti) racconta la presenza nelle arti dell’orientalismo e della passione borghese per il japonisme e le cineserie come componenti prima del gusto Belle Époque e, in seguito, del rinnovamento delle manifatture artistiche industriali (Anna Mazzanti). È indubbio che tra gli anni ’20 e ’40 un contributo importante nelle arti plastiche e figurative provenga dalle esposizioni internazionali.
È dalla scoperta di «mondi lontani», infatti, con il loro patrimonio di tecniche, materiali e forme che tra le due guerre si aggiorna il vocabolario dei nostri numerosi artisti e si compongono singolari raccolte. Un peccato avere lasciato la città sullo sfondo, trascurati gli spazi e i luoghi nei quali quegli oggetti d’arte sono stati pensati e prodotti, solo tratteggiate le figure che li avevano ideati. Vedremo nei prossimi mesi come il nuovo museo saprà proporre al pubblico il suo patrimonio collezionistico: una volta completati i lavori, sanate le controversie con Chipperfield, l’architetto autore del Mudec, ma soprattutto lontani dall’eccezionalità di eventi come Expo 2015, sperando che il post non ci riservi altre sorprese e delusioni.