Chi ha a cuore l’urbanistica di Roma, ha seguito e segue le ambigue e deludenti scelte delle sue amministrazioni, ma soprattutto non intende ridursi, come scrisse Mario Praz, al «commosso testimonio al capezzale di un malato grave», ma ricercare, al contrario, strategie di intervento fattibili ed efficaci, deve innanzitutto conoscere che cosa la capitale, con il suo territorio circostante, è diventata.
Il saggio collettaneo a cura di Carlo Cellamare Fuori Raccordo, sottotitolo «Abitare l’altra Roma» (Donzelli, pp.362, euro 34), può fornire molti elementi di approfondimento e di riflessione. Il libro è il frutto di un lavoro interdisciplinare di urbanisti, sociologi e antropologi che, nel corso di tre anni, hanno indagato con scrupolo i cambiamenti avvenuti non solo a Roma, ma in particolare nella sua provincia.
Ne esce una rappresentazione che mette in discussione la tradizionale distinzione tra centro e periferia, tra città e aree rurali, per una diversa e più aderente definizione dei «territori romani», inseriti «nei grandi processi globali di trasformazione dell’economia, della società e dell’urbano» (Cellamare).

PARTIAMO INNANZITUTTO con lo sfatare che Roma sia una «città metropolitana» e cerchiamo di capire in quali termini si contraddistingue dalle altre «città globali». Lo spiegano con precisione nel loro intervento Ernesto d’Albergo, Giulio Moini e Barbara Rizzo.
Con i suoi deboli livelli economici, la sua bassa connettività con le altre città e una trascurabile presenza del terziario avanzato, per la pur vasta area romana non si può parlare di «metropolizzazione», perlomeno nel significato che questo termine assume rispetto ai «pattern di sviluppo» delle «vere» aree metropolitane, europee o statunitensi.
ANCHE IL SUO POLICENTRISMO, che interessa l’aspetto «spaziale» della metropoli, a Roma è stato solo un tentativo mal riuscito con le nuove centralità (Prg, 2008) inserite tutte all’interno del comune e ridotte a «nuclei quasi-monofunzionali» invece di includere i medi centri urbani del Lazio. Si è così configurata una struttura spaziale ambigua: «un modello sui generis – scrive Lidia Piccioni – di interrelazione/autonomia tra una grande città e il suo intorno», che ha rivestito solo di retorica il reclamato policentrismo. Eppure il futuro urbanistico di Roma è nel suo «grande formato» che «i cittadini fanno fatica ad assumere» perché – come spiega Giovanni Caudo – la loro attenzione è allo «spazio di prossimità»: abbandonato o privatizzato. Per riqualificarlo non è semplice, ma soprattutto bisogna inserirlo in una scala dimensionale più estesa.

CI SI CHIEDE se la valenza di «prossimità» l’avrà lo Stadio della Roma il cui iter in deroga alle norme di piano Caudo se ne fece promotore come assessore nella precedente amministrazione. È certo, comunque, che il futuro urbano di Roma va pensato insieme ai suoi territori «interni» e «esterni» investiti anch’essi da fenomeni nuovi e contraddittori che il geografo statunitense Edward Soja per primo comprese includendoli nel termine «post-metropolitano».
Anche nei case-study riportati nel saggio si riscontra l’inversione della tendenza alla decrescita della densità urbana dal centro verso le aree esterno. Per molti di questi processi di trasformazione nelle grandi urbane italiane è ora di aiuto l’Atlante sviluppato in rete (www.postmetropoli.it) attinente allo stesso programma di ricerca del libro. Si comprenderanno come le nuove morfologie insediative, derivanti da flussi demografici in uscita dalla capitale, hanno modificato ampie superfici di territorio nei centri dislocati su tutte le direttrici delle antiche strade consolari e autostradali (A1), sulla litoranea, e verso le aree collinari dei Castelli.
Il motivo più forte risiede nella ricerca di una migliore qualità della vita che spinge con dinamiche complesse consistenti strati della popolazione a trovare condizioni economicamente più convenienti.
Si accetta così di vivere «in maniera frammentata ed esplosa su un territorio piuttosto ampio e diversificato» (Maranghi), attraverso una mobilità intensa tra luoghi vicini ma tra loro diversi.

SOTTO LA SPINTA della crescita abitativa gli amministratori reagiscono con difficoltà davanti a eventi che è impossibile governare localmente. In assenza di risorse adeguate e disponibili, infatti, è complicato ricollocare «strutture e servizi estromessi dalla città – che come scrive Monica Postiglione – hanno sicuramente portato all’insorgere di problemi e conflitti ambientali». Quanto poi queste nuove forme di localizzazione abbiano anche contribuito ad arrestare fenomeni di abbandono nei centri minori, anzi determinato la loro valorizzazione, è un aspetto innegabile, che andrebbe visto in una prospettiva più generale: ad esempio, in quella dell’inarrestabile consumo di suolo che nel Lazio non è ancora regolamentato per legge. Accade così che Roma, nel contesto europeo, è la città con il più alto valore di dispersione (rapporto tra aree a bassa densità e aree urbanizzate): l’indice più sensibile dell’alterazione e del degrado che ha subito il suo territorio.
Nel saggio una serie di contributi riguardano temi più delimitati. Si va dalle «distopie del controllo» delle quali parla Pierluigi Cervelli che restringono e separano sempre più gli spazi pubblici dai «quartieri privati» controllati e protetti, alle «nuove geografie del turismo» (Attili) come Civita di Bagnoreggio, fino alla centrale questione dei rifiuti urbani (Montillo) dove l’assenza di progettualità è data dall’incapacità di disegnare ecodistretti sui modelli europei dell’economia circolare che non escludono l’utilizzo del biogas dai rifiuti solidi urbani per la produzione di energia.
Una serie di interventi interessano però l’aspetto più emblematico del paesaggio urbano di Roma, ciò che lo rende indistinto tra l’urbano e l’extra-urbano e in continua evoluzione, come accade intorno ai mega centri commerciali e del divertimento (Valmontone) localizzati a ridosso del Gra e delle grandi arterie autostradali. Gli abitati che qui hanno preso forma sono il prodotto di una combinazione di elementi: abusivismo, auto-costruzione, urbanistica contrattata, come dimostra l’inchiesta di Irene Ranaldi della «zona urbanistica» di Morena.

L’ELENCO DEGLI INSEDIAMENTI «autoreferenziali che si sviluppano fuori della città consolidata» sono diversi: Monte Stallonara, Centrone e altri ancora. Sono pezzi di «città» dove vengono meno «le categorie interpretative tradizionali», ma che si alimentano delle contraddizioni del mercato globale.
Con questo, purtroppo, occorre fare i conti e se la «sostenibilità» non è parola fatua, come si vuole far credere, occorre che i diversi saperi disciplinari – tra questi prima l’urbanistica – devono tornare a misurarsi sui bisogni dei cittadini, ridefinire il loro campo di azione rimettendo al centro la qualità del vivere, dell’abitare e della coesione sociale, mentre la politica mirare ad arrestare il disagio dei tanti tornando a ragionare sulla città della quale per troppo tempo si è disinteressata.