Body artista fra i più estremi, Chris Burden è scomparso all’età di 69 anni, dopo lunga malattia. Negli anni Settanta, aveva terrorizzato gli spettatori incuriositi dalle sue performance, facendosi sparare addosso da un amico di buona mira, sul braccio sinistro, acasiandosi in un lago di sangue. Era il 19 novembre del 1971 e Shoot è rimasta una delle azioni più celebri della storia dell’arte d’avanguardia. «È un modo per controllare il destino», rispose l’americano Burden, spavaldo, a chi gli chiedeva il motivo di tanta violenza su se stesso (e anche su chi era lì, costretto a guardare). L’obiettivo reale, fuori dal perimetro protetto della cultura, era criticare ciò che accadeva in Vietnam.

D’altronde, in quegli anni l’artista sul suo corpo apparecchiava un «teatro della crudeltà» difficile da sostenere: si è fatto crocifiggere (con chiodi veri) su un maggiolino della Volkswagen, si è rotolato sui vetri ferendosi, si è sdraiato per ventidue giorni in un angolo della galleria Ronald Feldman di New York, senza nutrirsi né muoversi da quella posizione solitaria, invisibile ai più e indifferente alla vita. Ha anche provato a bruciare vivo. E ha creato atmosfere thriller facendosi ammanettare con anelli in ottone al pavimento, con accanto due secchi d’acqua e fili elettrici. Il pubblico avrebbe potuto rovesciare i secchi inavvertitamente, fulminandolo. Ma Burden affermò di «essere fiducioso, non sono mica un suicida!».
Negli anni, la sua carica esplosiva si è «addolcita», eppure Chris Burden non ha mai abbandonato quella originaria attitudine per le pratiche comportamentali: ha continuato a lavorare sull’idea di spiazzamento dello spettatore, soprattutto con la nuova dimensione architettonica dei suoi progetti e le sculture disseminate nella gallerie. Al posto del corpo, al centro della sua arte ha iniziato a esserci lo spazio antropico, la relazione tra relitto/oggetto e individuo.

In questo senso, l’ultima sua monografica tenutasi al New Museum di New York è stata emblematica, fin dal titolo: Extreme Measures, estremi rimedi. L’esagerazione stavolta è nelle forme, nella monumentalità dei suoi giocattoloni a metà ironici, poetici e brutali: il ponte di cemento bianco dal peso di due tonnellate, le repliche di cannoni, il bunker tutto d’oro, la polizia immortalata nei suoi atti più ruvidi. C’è la guerra ancora nelle sue installazioni, ma anche l’omaggio alla tradizione nomade, come quella tenda piena di tappeti, luogo di sosta presentato alla Biennale di Istanbul nel 2001. A New York, invece, la dedica era al viaggio onirico: già sulla facciata del museo, si veniva accolti da una barca galleggiante a parete, un assoluto spaesamento visivo. Poi, dentro, l’equilibrio era bandito: un camion penzola dal braccio di una gru e una Porche gialla che se ne stava sospesa su una specie di bilancia. Il contrappeso era rappresentato da una meteorite: gravità terrestre e «frammenti» celesti, due «poli» di magiche energie.