Da un capo all’altro delle Lettere inviate fra il 1929 e il 1940, Samuel Beckett non esitò a raffigurarsi nella sua «assenza di volontà», come un essere afflitto dal tedio, dall’irritazione e da tutti i sintomi di indolenza che connotano il vizio dell’accidia. Per scampare a questo stato di inerzia che lo portava a trascorrere rabbiose giornate «disteso sul pavimento», decise di affrontare fin dal 1934 un impegnativo ciclo di sedute di psicoterapia; ma non solo. Con Murphy, il romanzo che a partire dal 1935 lo tenne «occupatissimo», Beckett si propose di indire una vera e propria «istruttoria» attorno al più accidioso dei protagonisti, per costringerlo a giocare «col destino» una «partita a scacchi» di cui ci apprestiamo ora a ripercorrere le mosse.

Quando lo incontriamo per la prima volta nel suo appartamento del West Brompton londinese, Murphy si è legato nudo alla sedia a dondolo per andare in cerca dell’immobilità «protratta» che costituisce il suo massimo piacere. Più avanti lo seguiremo mentre si trascina per strade e parchi nei suoi cenci miserabili, stremato dalla fatica che gli arreca anche il più piccolo spostamento. Solo verso la metà del romanzo il narratore si deciderà a rilasciare il «penoso comunicato» che ci permette di conoscere meglio Murphy come un organismo «scisso», in bilico fra fatali dicotomie: da una parte, il corpo, che lo obbliga a far fronte alle necessità lavorative e sociali imposte dal «grande mondo»; dall’altra, la mente, un «piccolo mondo» a forma di «sfera cava», privo di gerarchie, dove Murphy si rifugia ad amare se stesso in uno «stato di grazia» del tutto libero da finalità e ansie progettuali.

L’antenato Oblomov
L’accidia di Murphy, con queste premesse, ci appare l’esatto rovescio del peccato capitale che, secondo la definizione di San Tommaso d’Aquino, ci conduce con la sua «tristezza» ad essere «pigri» e svogliati verso gli «atti spirituali». Nel suo inerte solipsismo, Murphy si avvicina piuttosto al rifiuto di ogni attività avanzato da Oblomov, l’immobile sfaccendato del romanzo di Goncarov nel quale, non a caso, lo stesso Beckett autorizzava i suoi lettori a riconoscere un possibile, anche se soltanto parziale predecessore. A differenza di quanto accade per Oblomov, né l’amore né l’amicizia riescono infatti a scalfire la roccaforte innalzata verso l’esterno dall’apatia di Murphy. Contro questo prodigioso e monolitico strumento di difesa, a nulla valgono gli assalti degli altri personaggi, che il romanziere ammette di aver architettato e disposto come «fantocci» o «pedine» solo per forzare il suo «smidollato» a spostarsi sulla scacchiera del romanzo.

La prima a fallire nel suo attacco all’accidia è Celia, una ex-prostituta legata a Murphy da «eccezionale amore reciproco», che per non tornare alla sua originaria professione gli ordina di scendere nell’inferno «mercantile» in cerca di un lavoro. Se questo tentativo di trasformare l’accidioso in un «uomo di mondo» non fa che spingere Murphy a barricarsi nell’alveo del suo «piccolo mondo», fino a disertare la «nuova vita» di coppia, ad esiti non meno paradossali arriva anche la strampalata e predatoria caccia all’uomo ordita ai danni di Murphy da «fantocci-pedina» come Neary, Wylie, Cooper e la diabolica Signorina Counihan. Dopo pagine e pagine di ricerca poliziesca, segnata da «bisogni», discussioni e moventi tanto deliranti da ricordarci il «teatro dell’assurdo» di Beckett, gli investigatori finiscono a sbattere in un vicolo cieco contro l’amara constatazione di Celia: «qualsiasi cosa avessi fatto, Murphy non poteva che lasciarmi, per tornare a essere quello che era».

L’unica opportunità di fare breccia nel «sistema chiuso» delle mosse di Murphy si apre quando il suo destino, ormai nella seconda parte del romanzo, lo porta a ottenere un impiego presso l’ospedale psichiatrico della Misericordia. È lungo i corridoi di questo «santuario» che possiamo finalmente osservare Murphy in azione, ansioso di buttarsi a capofitto nell’assistenza ai degenti, per andare a verificare di persona se tra loro può ritrovare i propri «simili».

A suo agio tra i matti
C’è da ammettere che in veste di inserviente di schizoidi e psicotici, da lui venerati come membri di una casta superiore e devota al culto di una «autoreferenziale indifferenza», Murphy non risparmia sforzi: si spinge persino ad afferrare la testa di un paziente, nel tentativo di entrare in comunione e di rispecchiarsi a fondo nel suo sguardo alienato, in un serrato faccia a faccia. Ma solo per arrivare a percepire che fra la propria accidia e l’universo dei folli si spalanca un «abisso» insondabile, destinato a negargli l’auspicato diritto di cittadinanza.
Con la consapevolezza di quest’ultimo scacco, Murphy si ritira dal gioco, per poi morire subito dopo, in seguito alla spaventosa «conflagrazione» provocata dal marchingegno di riscaldamento a gas che lui stesso ha chiesto di installare nel proprio alloggio ospedaliero. Non ci è dato sapere se si tratti di un suicidio o di una «disgrazia». Dopo le esequie, a cui partecipano Celia e gli altri «fantocci», le ceneri di Murphy verranno scaraventate, calpestate e disperse sulla soglia di un pub, senza ulteriori compianti né spiegazioni.

Ben diverso risulta allora il trattamento ricevuto dal vizio dell’accidia nei due sistemi di scrittura che si incaricano di rappresentarlo. In una lettera all’amico McGreevy, Beckett arrivò infatti a giustificare il proprio accanimento alla «non-esistenza», anche alla luce della terapia psicoanalitica, come la conseguenza di un complesso di superiorità in lui instillato dalle premure dell’amore materno. Niente di tutto questo nel romanzo, che si compiace invece di sceneggiare l’accidia su un palcoscenico dove la comprensione e il senso risultano ad ogni pagina ostacolati, complicati, se non addirittura dissacrati e messi al bando da un narratore irriverente, deciso a procedere a strappi, per sarcasmi, allusioni criptiche e iperbolici commenti filosofici verso «l’unico possibile» esito della storia.

Già persa la partita
Tutto, in Murphy, sembra già deciso a priori da una voce disposta a spendersi solo per amplificare quanto già sappiamo o ci è già stato detto. «Murphy – torna a replicare Celia – era Murphy»: e una volta esaurite le potenzialità narrative inscritte nelle variabili di questa scontata ripetizione, al romanziere non resta che sbarazzarsi del suo inamovibile bersaglio, dandogli letteralmente fuoco e riducendolo in cenere. Ma perché allora, c’è da chiedersi, Beckett si è dedicato a questa sterile «inchiesta», facendoci assistere a una «partita» già persa in partenza?

È stato Giorgio Manganelli a identificare in Beckett un «fantastico inventore di inferni senza Dio». Nel caso di Murphy, sarebbe forse più appropriato parlare dell’invenzione di un moderno Purgatorio, dove lo scrittore non si limita a portare in scena un semplice sosia del proprio io, ma piuttosto la rappresentazione esasperata di un suo «mito personale». Nell’apatia di Murphy si riflette infatti una controfigura letteraria capace di riaffiorare in tutta l’opera di Beckett, secondo Gabriele Frasca, come una «autentica ossessione»: l’ombra di Belacqua, l’immobile accidioso che nella seconda cantica della Commedia dantesca siede in «stato di grazia», senza pena di affrettarsi a espiare il suo peccato.

Un rogo liberatorio
Le pagine del romanzo, a questi patti, non ci appaiono soltanto come la superficie dove proiettare a ripetizione una «fantasia» ossessiva. Con l’esplosione che disintegra l’accidioso assieme a tutti i suoi demoni, Murphy si spinge oltre, a celebrare una segreta cerimonia di purificazione: un rogo omicida e liberatorio, attraverso il quale il romanziere, in connivenza con la letteratura, polverizza le zone dell’io dove risiede la tentazione più ricorrente e intollerabile. Poco importa, poi, se lo spettro di Murphy-Belacqua risorgerà ancora a infestare la corrispondenza e la successiva produzione di Beckett. In linea con gli obiettivi di quella futura produzione, l’arte, per il momento, ha ridotto l’accidia al «nulla».