Dopo la rivelazione stupefacente dei primi testi Nunzio e Bar, circa vent’anni fa, la scrittura per il teatro di Spiro Scimone ha intrapreso un percorso che a prima vista (o anche solo vedendoli singolarmente lungo gli anni in cui sono apparsi in palcoscenico) ha riscosso per ognuno di quei testi un meritato, autonomo successo. Eppure già a partire da La festa, capolavoro di atroce normalità quotidiana dentro una famiglia, si vede ora il desiderio progettuale di un affondo, graduale ma implacabile, dentro il tessuto tenace e imbastardito dei rapporti tra le persone. Ingenuità, cattiveria e infelicità ora si stagliano nette e ben coerentemente legate, in un implacabile giro di vite senza fine, dentro Il cortile, La busta, Pali, Giù, quasi fossero gradoni successivi di una discesa agli inferi, inarrestabile e ineluttabile quanto pure ridicola.
L’andata in scena ora (nel teatro grandioso dell’università calabrese di Arcavacata, poi tra un mese a Bologna e a maggio all’Elfo di Milano) dell’ultima creazione di Scimone, già fin dal titolo denuncia postura e postazione di un pensiero, o di un sentimento, che nella sua universalità suona inquietante: Amore. Così come inquieta la scena, cimiteriale ma bella e fascinosa, creata dalla mano d’artista di Lino Fiorito: due tombe con tanto di croci, ma pronte a trasformarsi in talami a due piazze. E subito dietro quattro cipressi grandissimi e dai bronzei riflessi, che quelle creaturine lì davanti ombreggiano e anche proteggono.
Perché il teatro che Scimone scrive, da sempre si illumina nei corpi d’attore che questa compagnia vive in grande comunione con la presenza di Francesco Sframeli, attore (come anche Scimone) e da qualche anno regista di questi «stralunati» e coinvolgenti racconti. Insieme ai due titolari della ditta, ci sono stavolta Gianluca Cesale (abituale compagno di scena) e Giulia Weber, che a memoria costituisce la prima presenza d’attrice donna nel loro teatro.
Di fatto, e con tutti i possibili distinguo, sono due coppie quelle che da una tomba all’altra si scrutano, si spiano, si imitano, si copiano gesti, desideri, ricordi e soluzioni. Tutti e quattro sono schietti ed espliciti nella memoria e nelle parole, con tutti i gesti e gli interrogativi e le pulsioni che queste comportano. La coppia Weber-Scimone, quella dei «vecchietti», risente dei limiti e delle inadeguatezze dell’età e del desiderio, anche se i ricordi sono vivaci e vividi, così come, per lei soprattutto, la voglia di rinnovarli. Sframeli e Cesale sono invece due pompieri: il primo comandante il secondo esecutivo, a loro modo coppia anch’essi, per certe birbonate e nefandezze che si vanno raccapezzando tra i ricordi, e nella voglia sempre viva di effusioni rassicuranti come di tiri mancini spericolati. E prima di trovare sistemazione anche loro nel lettuccio tombale, girano su un irresistibile carretto antincendio a mano, un triciclo dotato però di sirena e luce lampeggiante, su cui il sottoposto trasporta il suo superiore come in una irriverente processione paesana.
Paesana del resto appare quella ronde, ma di una provincia interiore, che resta attaccata a una eterna e irrisolta pubertà della coscienza. Con assoluta naturalezza si evocano baci in bocca e erotismi linguistici, mentre si ripiegano calzini o si infilano scarpe. Ma la coscienza è ridotta a barlumi, il desiderio un imperativo sociale, la comunicazione piena è una chimera sempre rincorsa.
Finisce così che l’eros tanto rincorso ed evocato (come negli ultimi testi erano gli escrementi, pericolo invasivo ma anche terreno di possibile rinascita), possa scoprire una forza drammaturgica anche comica e comunicativa, ma riveli soprattutto il suo agghiacciante dolore. Le due coppie si ricompongono nel loro abbraccio d’amore solo dentro le tombe, ultima rassicurazione possibile e definitiva accoglienza per i buoni sentimenti. Tutto il resto, ovvero il «prima» rappresentato dal desiderio e dall’incontro dei corpi, è frammentario e quasi inconsapevole, affogato nei ricordi inconcludenti.
Lo smarrimento del «vecchietto» Scimone e la bambineria sorridente del pompiere comandante Sframeli, così come l’affaccendarsi dei personaggi di Weber e Cesale, si fanno maschera incancellabile di una vita impossibile da vivere realmente nella sua pienezza, sommersa dai luoghi comuni, dalle banalità e dalle illusioni che non si riesce mai a soddisfare. Se non dopo morti, forse, senza distinzione di generi, desideri, ambizioni. Un «piccolo» spettacolo di grande maturità e di sconfinata intelligenza del mondo.