Identità nazionale, «italianità». Riconoscimento dei valori tradizionali e di quelli religiosi. Concetti astratti che appaiono limitanti al più puro dei cittadini nostrani. Figurarsi per qualcuno cresciuto a cavallo di due culture. Per questo – al di là del racconto autobiografico – Non legare il cuore di Farian Sabahi (Solferino, pp.188; euro 15: verrà presentato il 25, ore 21, a Noli) è un testo utile per capire l’importanza del pluralismo, dell’apertura alla diversità, dell’inclusione. Farian Sabahi è una giornalista e studiosa, italiana (e piemontese) da parte di madre, iraniana da parte di padre.

BATTEZZATA DI NASCOSTO dalla nonna materna e considerata musulmana sciita per discendenza dal parentado paterno, è cresciuta nella libertà di fede e nel dualismo culturale di cui la sua famiglia – una delle prime in Piemonte a nascere da un matrimonio misto – era un esempio eccellente. La continua ricerca di identità e al tempo stesso la convinzione di essere molto più che solo italiana o solo persiana le hanno consentito di approcciare al lavoro di docente di Relazioni Internazionali del Medio Oriente in maniera equilibrata ed equidistante. O forse proprio i suoi studi sono il risultato della ricerca condotta dentro se stessa: suoi sono i saggi Storia dell’Iran e Storia dello Yemen. Molto ha da offrire una vita a cavallo tra due mondi diversi come lo erano l’Italia e l’Iran negli anni ’60 e ’70. Ma ad accompagnare la ricchezza umana e culturale, un enorme senso di smarrimento.
Come molti i bambini «misti», a scuola la giovane Farian era oggetto di derisione ed emarginazione: in quegli anni l’esonero dall’ora di religione, in un paesino delle Langhe, non era poi così comune. «Farian, che oggi siede tra noi, è una bastarda», l’aveva apostrofata un’insegnante in classe risvegliando quel senso di esclusione da cui cercava di affrancarsi. «Con il tempo – scrive l’autrice – quella diversità mi ha permesso di guardare il mondo in modo differente e si è rivelata un vantaggio. Ma a quattordici anni avrei preferito non essere tanto differente dagli altri». Essere ‘diversi’ voleva dire esserlo non solo in Italia, in Piemonte. Ma anche a Tehran: «quello iraniano era un mondo intriso di religione e di superstizione, dove mamma non poteva vestirmi troppo bene quando mi portava fuori perché Mariam (nonna paterna, ndr) diceva che avrei attirato l’attenzione dei jinn, spiriti e folletti nostrani, e l’invidia altrui».

IL RITORNO A TEHRAN da adulta, nel ’97, la spinge a cercare, a studiare alcune pagine della storia del suo altro Paese: i giovani dell’Esercito del Sapere (giovani laureati, arruolati per essere assegnati alle aree rurali, ndr). Ma l’arrivo in aeroporto le ricorda chi sia in quella terra: «straniera» aveva detto il militare addetto al controllo bagagli al collega. Nonostante le oscillazioni continue tra l’essere per sé e l’essere per gli altri, quella di Farian è una storia che suona come un canto di liberazione. Tuttavia, come lei stessa racconta, manca ancora la strofa conclusiva: «Ho compiuto cinquant’anni – scrive Farian nell’Epilogo del libro – Ancora non ho risolto la questione religiosa Sono a mio agio in chiesa come in moschea. La fede è una casa con molte stanze. E in una di queste c’è spazio anche per il dubbio».