A Montecitorio c’è l’agitazione delle grandi occasioni anche se dello spettacolo che sta per andare in scena tutti conoscono già il finale. Il Movimento 5 stelle propone una legge per dimezzare gli stipendi dei parlamentari fino a 3mila euro netti. Il Pd, quello di «basta un sì per tagliare i costi della politica» stavolta dice no, il testo deve tornare in commissione. E con i numeri della Camera non ci sono santi.

Ma lo show va lo stesso. Mezz’ora in ritardo però. Il presidente Luigi Di Maio, grillino – è una piccola perfidia far presiedere lui l’aula – rinvia l’inizio dei lavori per il voto elettronico. In realtà c’è anche da aspettare Beppe Grillo, ospite illustre annunciato in tribuna ma un po’ ritardatario. Benché alle 14 e 25 abbia lasciato l’Hotel Forum, giurano i suoi. Neanche ha la giustificazione di aver dovuto fendere le folle dei militanti convocati a Piazza Monte Citorio: all’appello rispondono in pochi e svogliati, alle tre e un quarto ci sono quattro bandiere pentastellate e un tricolore. Ce n’era un secondo, se lo porta nel palazzo la giovane deputa romagnola Maria Edera Spadoni. Vorrebbe drappeggiarselo sulle spalle in aula, ma fa l’errore di entrare già impavesata: viene fermata dai commessi, convocati a loro volta in quantità data la minaccia di giornata ’calda’, e spavesata seduta stante.

Iniziano le danze. Il Pd delega il centrista Lorenzo Dellai a fare la proposta di rinvio in commissione, cioè di probabile insabbiamento sine die del provvedimento. Iniziano gli insulti: «Hanno mandato il sottopanza del Pd a fare il lavoro sporco», attacca la 5 stelle Roberta Lombardi, prima firmataria del provvedimento, «quando si tratta delle vostre campagne elettorali siete pronti ad adottare questi temi sul risparmio» e invece in questo caso, per un risparmio maggiore di quello della modifica costituzionale, giura, «perché dopo due anni dalla deposizione di questa proposta non si è trovato il tempo in commissione per affrontare un tema come questo?». La domanda ci sta, il Pd che basa la sua campagna referendaria sui tagli ai costi del senato dovrebbe rispondere «nel merito» come piace dire in questi giorni al premier. Ma la domanda vale anche allo specchio: perché ci sta anche il sospetto che i 5 stelle vogliano alzare i decibel ora per coprire qualche stonatura proprio sui loro rendiconti, vedasi alla voce Di Maio. II grillini fanno gazzarra, si rivoltano anche contro il loro presidente ’reo’ di non seguire la loro interpretazione dei regolamenti. Tanto entusiasmo si capisce: è vero che fuori dal parlamento il movimento bordeggia il flop, ma nella tribuna di fronte a loro c’è un Beppe Grillo fonato e sorridente come un padre fiero dei suoi ragazzi. Le opposizioni li appoggiano: il ’fronte del No’ si compatta contro il rinvio del provvedimento. Forza Italia lo decide all’ultimo minuto – fin qui aveva giurato fedeltà al Pd – Lega, Fratelli d’Italia, Civati ed ex grillini e Sinistra italiana l’avevano già annunciato. «Chi di populismo ferisce di populismo perisce», dice Arturo Scotto in direzione dei banchi del Pd, «il premier Renzi scappa da un confronto parlamentare che sarebbe stato un buon segnale per il paese».

Ma è il Pd quello che deve alzare di più i toni per evitare di spiegare perché un testo che abbatte i costi «dei politici» – uno degli slogan più fessi e antipolitici del fronte del Sì – non può essere discusso dall’aula. «In commissione ci abbiamo provato», attacca il capogruppo Pd Ettore Rosato, ma passa subito al rodeo, «a loro invece interessava venire in aula per dire che un parlamentare dovesse prendere la metà di quanto prendeva di consulenza la Muraro», cioè l’assessora all’ambiente del comune di Roma, quella delle laute consulenze con l’Ama. Come un grillino qualsiasi anche Rosato non resiste allo show e si rivolge a Grillo: «Abbiamo un ospite importante, abbiamo adattato la nostra agenda a quella di Beppe Grillo oggi, io lo pregherei di andare anche in un altro Colle qui vicino a parlare di auto blu, di consulenze, di tagli di costi inutili», «bisogna essere onesti con i propri elettori». È un regalo, un cono di luce tutto per il comico che, dall’alto, gli batte le mani e lo sfotte «bravo, bravo». Urla, applausi, si vota, il presidente chiude il sipario: «La camera approva per 109 voti di differenza».