Tre armoniche nella mano sinistra, la quarta scivola con disinvoltura sulle labbra di Larry Fink (Brooklyn, New York 1941, vive e lavora a Martins Creek, Pennsylvania), producendo una melodia old west.
Al collo la compatta digitale, altra compagna di avventure del fotografo americano che a Roma, in occasione dell’ultima edizione di FotoLeggendo (e subito dopo ad Arles per i Rencontres de la Photographie), ha presentato The Polarities (L’Artiere, pp. 144, euro 45), il libro curato da Laura Serani. «L’improvvisazione e il tempo, la sensualità»: per Fink la relazione fra musica e fotografia sta tutta dentro questa manciata di parole.

«Senza la musica sarei morto», afferma colui che viene definito «una delle leggende della fotografia americana, figura maggiore di quella scena che investe da più di cinquant’anni, con la stessa passione e lo stesso impegno e con dei risultati sempre sorprendenti». E sono stati proprio quei risultati ad avergli fatto guadagnare riconoscimenti prestigiosi, tra cui l’Infinity Award for Art, oltre al Guggenheim Fellowship e i due National Endowment for Art. «La musica è la mia prima vita. Suono il piano jazz da sempre, l’armonica invece solo da cinque o sei anni. La maggior parte dei miei amici, in gioventù, erano musicisti, non fotografi», continua Larry Fink con il suo forte accento newyorkese, erede della cultura beat.

The Polarities è un racconto per immagini sulla società americana contemporanea attraverso uno sguardo che spazia tra pubblico e privato con grande lucidità e altrettante pulsioni viscerali, attento a cogliere il bello nella quotidianità, così come le frivolezze e le fetenzie. Una lezione, del resto, che Larry Fink ha imparato da Lisette Model (1901-1983) che ha formato fotografi di varie generazioni, tra cui Diane Arbus, Bruce Weber, Leon Levinstein, Bruce Cratsley, Elaine Ellman, Eva Rubinstein e Rosalind Solomon. Le quattro sezioni del libro – Politics, Society, Country Life, At home – sono una sintesi di questi ultimi cinque anni in cui ripercorriamo la fine dell’era Obama e l’ascesa di Trump con la politica-spettacolo, riconoscendo tra i volti della gente anche il ritratto dell’attivista visiva sudafricana Zanele Muholi, proiettato durante una conferenza in una qualche istituzione americana. Luci, ombre, mani, la neve fuori dalla finestra della sua fattoria in Pennsylvania, il cane, oche e galline, maiali, pavoni… tutto si mescola e l’oggi ha il sapore di ieri, forse troppo distante dal domani.

®Larry Fink, Easton, Pennsylvania, 2016
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Lei si definisce un «marxista di Long Island»…
Sì, originariamente sono di Brooklyn, poi i miei si trasferirono a Long Island. Mia madre era un’organizzatrice comunista. Una donna elegante. I miei genitori andavano ai party e facevano la bella vita. Ma erano persone profondamente generose. All’epoca, il comunismo era una sorta di risposta alla necessità di riorganizzare nel mondo i concetti di avidità e potere economico. Mia madre fu cacciata dal partito o, meglio, se ne andò perché erano molto puritani e a lei piaceva divertirsi e indossare pellicce. Le dissero «non puoi indossare abiti eleganti» e lei li mandò a quel paese, «a cosa serve la rivoluzione se ognuno non può indossare ciò che vuole?».  Anche se lasciò il partito non smise di essere un’organizzatrice. Coordinò fino alla fine della sua vita manifestazioni femminili per la pace e contro il nucleare, per l’educazione e la sanità. È morta a 86 anni. Era coinvolta anche nella vita artistica, frequentava gli espressionisti astratti: è da questo che è nata la mia prima inclinazione per l’arte. Portava anche me e mia sorella – che è stata una famosissima avvocata civile, difese gli Attica Brothers quando iniziò la rivolta nella prigione di Attica – a sentire l’orchestra sinfonica.

Invece, cosa può dire di suo padre? Era lui a possedere la macchina fotografica…
Era un uomo molto gentile, amorevole, semplice e intelligente. Non l’ho conosciuto così bene perché morì presto per un attacco di cuore. Sì, mi ha dato lui la prima macchina fotografica. Era un apparecchio assai economico, poi ho avuto una Rolleiflex. All’epoca i miei non erano molto ricchi, la mia ho dovuto guadagnarmela con il lavoro.

A New York lei studiò con Lisette Model. Cosa ricorda di quel tempo?
Lisette Model era un genio e anche una veggente. Vedeva le cose intuitivamente, con empatia, fisicamente, in un modo veramente unico. Aveva un istinto per il contatto con l’altro e sapeva stimolare nei suoi allievi il coraggio ad andare avanti con il loro lavoro. Non è stata un’insegnante di fotografia, ma di vita. Io, che insegno da 55 anni, ho continuato a farlo in questo modo, tenendo viva la sua eredità. Se esci con l’intenzione di scattare una foto interessante, vai e forse porti a casa una bella immagine, ma hai solo una fotografia. Ma se esci per scoprire come puoi fare una foto interessante attraverso un’esperienza, può succedere che ti ritrovi con una immagine che non è solo una foto, ma la traduzione di un’esperienza. Fotografare per fare arte.

Le foto raccolte nel libro «The Polarities» sembrano attraversate da atmosfere di altri tempi, ma ci sono dettagli, come la presenza degli iPhone nella foto del militare in alta uniforme che mangia accanto alla bandiera americana e alla donna bionda che guarda altrove, che ci riportano al presente. È così?
È solo ciò che vedo. Quella foto è stata scattata nell’hotel Hay-Adams di Washington, il preferito dalle personalità politiche. Era la notte prima dell’elezione e c’era una sorta di festa per la vittoria di Donald Trump e dei repubblicani. Ero lì per Vanity Fair. Ho assistito a tutto il ballo e fotografato. Quando si pensa ai militari e alle donne bionde con le bandiere si è già in una sorta di vortice temporale. L’uniforme in sé è un vortice temporale, anche se ultimamente va particolarmente di moda. Quando la indossi rappresenti la cultura, la dignità e la postura della divisa stessa. E questo accade da secoli. Ma la cultura del potere e della corruzione vengono ancora da prima, cambia nelle sfumature, non nell’intenzione.

Nelle sezioni «Country life» e «At home» ci sono anche diversi accenni alla sua vita privata…
Ho una grande fattoria in Pennsylvania con molti pavoni. Avrei voluto una foto di mia moglie (Martha Posner, ndr) in mezzo a loro, ma lei non ama essere ritratta. Quando ci siamo conosciuti, venticinque anni fa, mi ha detto: «Non sarò un’altra delle donne di Larry Fink!». È una tosta. Anche ora è molto bella, ma abbastanza timida. Nel libro c’è qualche foto di lei con i cani, animali che le piacciono molto.

Nella fattoria, naturalmente, c’è anche la camera oscura…
La camera oscura è grandissima, sta in fondo al fienile del 1812. Quando l’ho preso, cinquant’anni fa, era alto tre piedi. L’ho liberato, pulito e risistemato. Ai tempi mia moglie era un’artista visiva molto nota e feci prima il suo studio. In parte vivevo anche a New York, nel frattempo aggiustavo cose e costruivo la camera oscura.
Feci la rete elettrica e le tubature dell’acqua. Non avevamo molti soldi, è stato un lungo e duro lavoro. Mi piace lavorare con le mani. In fondo alla strada, lunga un miglio e mezzo, ho anche due trattori. Comunque, oltre alla camera oscura ho anche l’attrezzatura digitale. L’archivio sul retro è organizzato e gestito dalle mie assistenti che ci lavoravo da sei anni. Stiamo cercando dei donatori perché possa andare a musei, università e biblioteche.

Anche quando fotografa in digitale utilizza il bianco e nero?
Non voglio lavorare con una palette cromatica perché quando produci in modo estemporaneo, come faccio io, è molto difficile da controllare. Se si lavora in una forma ridotta, senza le variazioni cromatiche, ci si concentra sulla struttura, sul tempo. È proprio diminuendo che si dà più potere all’espressione.