«Acqua argentata» è il significato di Simav, il nome di una giovane donna kurda che vive in Siria, a Homs, straniera in una città «straniera» a se stessa, irriconoscibile, massacrata, dove tra le macerie e i morti sono rimasti solo bambini e gatti mutilati, immagine dolorosa di una guerra sempre più sporca. Nei mesi di un assedio feroce la ragazza resta e filma con la sua piccola telecamera nascosta a rischio della vita. Al regime di Assad, dice la sua voce fuoricampo, non piacciono le telecamere, le considera un’arma pericolosa. Lei non la vedremo mai, a parte un istante, quando viene ferita e mentre la medicano qualcun altro tiene la macchina da presa.

Alla fine della proiezione di Eau argentée – Syrie Autoportrait c’era silenzio, e poi un applauso per quello che è il film più sconvolgente di questi primi due giorni di Festival. E che al solito, visto che si tratta di un «documentario» il direttore artistico Thierry Frémeaux ha presentato tra le «Proiezioni speciali».

È tutto reale, certo, quello che vediamo, e un morto è un morto purtroppo – e di morti ve ne sono tantissimi – però la potenza di questo film, la sua «verità» non vengono semplicemente dall’essere vero: è la sua trasformazione in esperienza narrativa che lo scuote, rendendolo un «cazzotto nello stomaco» come sussurra qualcuno (pure se è proprio il contrario ciò che cerca) improvvisamente emerso dall’indistinto dell’abitudine, dall’anestesia dell’informazione in tv o in rete a cui la retina collettiva sembra ormai essere indifferente.

Eau argentée è firmato da Wiam Simav Bedirxan e da Ossama Mohammed, lui uno dei protagonisti del cinema siriano (Sacrificio, 2002), che lo dedica a Omar Amiralay, il suo maestro, da cui ha imparato a interrogare il senso profondo e la superficie delle immagini. E anche da mille e un siriano e siriana, centinaia e centinaia di occhi, telefoni portatili e camerine che nel corso di questi anni hanno ripreso, e molte volte sono morti nel farlo, creando un solo sguardo, lo sguardo di tutti. L’intero popolo siriano filma, filmano i giovani che protestano nelle strade, filmano i militari del dittatore, filmano i ribelli armati, e filmano i torturatori in carcere.

I siriani hanno realizzato il film più lungo della Storia, dice la voce di Mohammed, che dalla Siria è andato via nel 2011 per venire a Cannes, senza avere un film da mostrare, il film era lui stesso, un cineasta di un paese in guerra. Pensava di tornare, solo che poi non è tornato, è rimasto a Parigi a interrogarsi su come parlare della Siria, fino a che Simav non lo ha cercato. Il film è anche il racconto di questo incontro. «Cosa filmeresti se fossi a Homs» gli chiede lei. Tutto, risponde lui. Le bombe, i cecchini, il sangue, la brutalità dei soldati, la disperazione dei resistenti come Simav che piano piano si vede portare via la sua lotta, è troppo libera, non mette il velo, ha inventato una scuola per bambini che non piace agli islamici. E come il piccolo blasfemo che l’accompagna nelle strade deserte sfidando i cecchini sa cogliere la speranza di un fiore tra le tombe.

Un giorno un ragazzino viene arrestato, ha scritto sul muro «abbasso il regime, vogliamo la libertà». In carcere lo torturano, i torturatori filmano, e uccidono, sodomia con i bastoni, calci, botte, costringono i ragazzini a baciare i loro scarponi e la fotografia di Assad. I genitori lo vanno a cercare, i militari gli dicono di fare un altro figlio. La protesta esplode, una marcia di chilometri, i manifestanti filmano e muoiono. E il cinema comincia.

Un uomo voleva aprire un cineclub, il regista lo invita a cominciare da solo, a coinvolgere le altre persone del quartiere. È un volto tra tanti, ha filmato e poi è morto, un frammento: Douna mon amour.

Non si tratta solo di fare un po’ di verità su quanto sta accadendo in Siria, in quel buco nero di violenza risucchiato nell’ignoto, dove l’esercito uccide i cittadini, sevizia impunito, con risate sguaiate in nome di Assad. E dove la gente si è armata, e la sopraffazione è divenuta legge. Capita di vedere due bambini un giorno giocare col gattino, e il giorno dopo scopri che sono diventati due piccoli martiri. C’è questo, ed è importante a fronte di un vuoto che è sempre il troppo pieno. Ma appunto lo shock non è l’obiettivo di un’opera densa di malinconia, e a tratti godardiana nella sua interrogazione costante a un linguaggio che forse non è più possibile.

Oggi si può fare un film con le immagini altrui, esperienza di un altro da sé continua, a cui lo sguardo interno di Simav e quello «esterno» di Ossama danno una trama. E soprattutto pongono delle questioni senza sosta. Cosa significa fare un film su una rivoluzione nel tempo in cui le rivoluzioni si filmano «in diretta», ciascuna parte dal suo punto di vista? E cosa vuol dire filmare una guerra, cosa diventa il cinema in tutto questo? Cosa sono le immagini delle vittime e quelle degli assassini, il realismo e la poesia, cosa è filmare o leggere sotto le bombe, specie se il libro si chiama La memoria dei corpi, intanto Simav guarda da lontano quella che fino a poco tempo prima era la sua casa, distrutta come la sua famiglia di chi non sa più nulla. «Stai male» grida al gattino bruciato e scheletrico nel frastuono delle pallottole.

È raro vedere una coincidenza così ravvicinata tra quella che è l’esperienza collettiva, nella sua crudele pluralità, il sentimento individuale e lo statuto se così si può dire delle immagini, lo spazio del possibile che gli rimane per raccontarla, o almeno per rendercene testimoni consapevoli. Accade qui, e ci fa piangere. Pure se non è il pianto, la lacrima consolatoria il senso di questa forma. Sono le nostre certezze a essere messe in discussione, i punti di riferimento accomodanti scomposti alla radice. Il senso è altrove, sta a noi trovare il punto da cui restituirlo.