Se i «bambini sanno», gli adulti invece brancolano nel buio e sembrano ciechi e sordi rispetto quell’infanzia che, per avventura, incrociano ancora nelle loro vite, una volta perduta la propria. Non immaginano, infatti, i pensieri di quei ragazzini e ragazzine che abitano le stanze delle loro stesse case, non conoscono le ombre che passano dietro lo sguardo, le pause di riflessione, il punto di vista sul mondo. Perché non è vero che i bambini scimmiottino i pareri dei «grandi». È stato il cinema ad accorgersene per primo: ha posizionato la macchina da presa alla loro altezza (dai protagonisti del Neorealismo al Ragazzo selvaggio di Truffaut fino a un capolavoro come Boyhood) e li ha liberati dai banchi di scuola. Ogni tanto, li ha inseguiti mentre correvano a perdifiato, in direzione di un futuro ignoto, con i polmoni pieni di una energia altrettanto sconosciuta.
I bambini sanno, il film-documentario di Walter Veltroni (uscita il 23 aprile, prodotto da Sky e realizzato da Wildside in collaborazione con Palomar), comincia proprio così: con un omaggio ai tanti piccoli attori della storia del cinema. Si corre tra i prati, verso il mare, sul pendio di una montagna. Poi, tutto si ferma. E, con una grammatica visiva elementare, si entra in un luogo più raccolto: la «cameretta», lo spazio intimo e rassicurante dove si cresce, si studia, si piange, si dorme, si ride e si chatta al computer. Qui, trentanove bambini dagli 8 ai 13 anni (scelti dopo un casting con 350 candidati), provenienti da differenti classi sociali e da geografie lontane, si raccontano. Se ne stanno composti su una sedia, davanti a loro c’è il regista-intervistatore e, in presa diretta, stimolati da un macrotema – la famiglia, dio, i gay, l’amore, le passioni – sfoderano universi imprevisti. Non arretrano di fronte a nessuna domanda e mitragliano i cliché. Qualcuno, anche, tira sassi che fanno male: «I miei genitori, non sono all’altezza, non possono capirmi», dice il genio in matematica costretto alla diversità, immerso com’è in progressioni di numeri misteriose agli altri. Oppure, c’è Winner, la teenager di origine nigeriana, che non nasconde la sua delusione per un padre assente: una smorfia sta per tutta la sua tristezza.
Non dicono cose edulcorate i bambini, semplicemente perché non le pensano e le loro esistenze sono delle montagne russe di emozioni, nel bene e nel male. Se sono feriti, meglio degli adulti affrontano il dolore come conseguenza naturale. Non c’è reticenza nel commuoversi al ricordo di un lutto recente, Kevin inghiotte l’amarezza di una promessa non mantenuta (la maglietta della Roma), qualcuno sogna una bici mai comprata). C’è anche chi esorcizza un divorzio e la paura dell’abbandono vivisezionando l’accaduto razionalmente e chi, invece, cambia l’intensità dello sguardo quando parla del genitore licenziato. La malattia stessa non è un tabù: arriva inesorabile, si chiama leucemia e si porta via non la vita ma gli amici.
Tutti, comunque, si sforzano di dare una risposta pura, non suggerita dalla convenienza. E già questo pone la maggior parte degli intervistati al di sopra di molti «grandi». Marius, bambino rom che vive in un campo nomadi di Torino, fingerà di avere una fidanzata in classe che lo aspetta, salvo poi confessare la bugia con un seduttivo sorriso. «Mi considerano diverso». «Tu lo pensi?». «No, siamo uguali», dice toccandosi il corpo per significare, senza troppe complicazioni, «siamo fatti tutti così». A lui viene riservato un regalo speciale: una gita al mare, per Marius sarà la prima volta.
E l’amore? È palpabile, una scossa elettrica, giocoso, malinconico, timido. Francesco, ragazzo down, lo dichiara con un fiore, Simone si confonde fra le troppe fidanzate, perdendo il filo nei meandri della sua famiglia allargatissima, Barbara ha passioni lampo di tre ore. Lisa, figlia di due mamme, non ha niente in contrario, sta benissimo però si è stufata di dare spiegazioni sulla sua famiglia omo.
Infine, dal film possiamo estrapolare una delle più belle definizioni dell’inconscio che farebbe impallidire Freud: «L’anima è la nostra parte interiore, cioè quella che controlla i nostri sentimenti e che ci fa fare delle cose che magari, a volte, non vorremmo fare».