Ogni artista agisce spinto da alcune domande ossessive che attraversano tutta la propria opera, e quindi la propria vita. Quelle di Marina Ballo Charmet potrebbero sintetizzarsi in: Quando e dove nasce l’immagine? Con quale meccanismo si coniuga l’inconscio personale con l’inconscio fotografico? Per focalizzare meglio il proprio lavoro, l’artista ha da poco pubblicato una raccolta di testi e immagini, Con la coda dell’occhio (Quodlibet, pp. 184, euro 20, con in appendice una conversazione con Jean-François Chevrier e un testo di Stefano Chiodi, già curatore di Sguardo terrestre, la personale dell’artista al Macro, nel 2013). Il libro sarà presentato oggi, ore 18, al Castello Sforzesco, nell’ambito di Milano Photo Week.

MARINA BALLO CHARMET ha lavorato per più di trent’anni come psicoterapeuta nei servizi territoriali pubblici milanesi, soprattutto con l’infanzia. È un’artista che attraverso fotografia e video, fluttua nell’esperienza del mondo, cercando di svelare quel qualcosa annidato al margine dello spazio e della coscienza privata e collettiva. Questa attenzione sociale non si è risolta tanto nei temi e nei soggetti del suo fotografare, quanto nel ragionamento che si manifesta nel suo stile; l’esperienza del vedere è sempre la sintesi di un concetto.

Nella serie intitolata Primo campo, Ballo Charmet ha fotografato il campo visivo di un bambino appollaiato sulle braccia di un adulto. «È un’esperienza che non appartiene al codice comune del vedere ma in qualche modo lo precede». In effetti è come se – guardando le pieghe dell’epidermide, le rughe del collo, il bottone di una camicetta, il modo in cui la pelle scompare sotto il tessuto di una maglietta – il bambino riuscisse a decifrare per intero l’identità apparente della persona, associando la visione alla «esperienza di un’intimità tattile e olfattiva». In questo lavoro, così come negli altri, Ballo Charmet ha sempre usato un obiettivo «normale», per avvicinarsi il più possibile a ciò che vede l’occhio umano; ha evitato di distorcere l’immagine, e preferito il «fuori fuoco», per restituire lo sguardo mobile della visione, «la percezione del periferico», e suggerire che le immagini si originano poco prima della coscienza e «ricordano ciò che vediamo a occhi socchiusi»; gli occhi vedono molte più cose di quanto la mente riesca a decifrare, viviamo immersi nell’infinito ci ricordava Cartesio, un assoluto che non ci abbandona mai.

Nella serie Rumore di fondo, l’artista riprende dal basso le facciate di alcuni palazzi, a Milano, inquadrandoli sempre dal punto di vista di un bambino, che guarda dal passeggino, seduto o addirittura sdraiato. Nascono così porzioni senza un centro conclamato né la monumentalità del soggetto che ingombra la scena. Qui, consci del fatto di essere condotti da mani altrui, gli stessi occhi del bambino-artista sono costretti a guardare ciò che la guida adulta permette, la parte di mondo concessa, e allora è come se i palazzi galleggiassero, risaliti in superficie dal rimosso.

NONOSTANTE L’INTROMISSIONE pesante, ossia l’essere guidati, qualcosa di inusuale appare, Ballo Charmet focalizza l’inconscio, la soglia tra il percepibile e ciò che invece ancora non è possibile definire. Non a caso ha spesso fotografato il paesaggio – piazze, marciapiedi, spiagge, litorali, limiti tra sabbia e mare e cielo – in due momenti precisi, contrapposti: all’alba e al tramonto, quando la luce si crea e si disfa, «in quei momenti di luce incerta», come scrive Chiodi, quando «in questa luce priva di contrasti, le cose appaiono abbandonate, definitive, inservibili. Sono tutte lì». Insomma, fotografare arbusti, dune, un pezzo di marciapiede, di erbacce infilate in una frattura di cemento e asfalto, come fossero parti del volto di una donna, i suoi capelli visti dal bambino. Abbassarsi al livello del terreno, quasi strisciare sul selciato umido.

Così, da questa visione, è più facile avvicinarsi a «qualcosa presente da sempre, sospeso»; «essere una cosa sola con il mondo», prossimo a deperire, certo, a morire, come uno scarto, che è al tempo stesso origine di qualcosa d’altro; o un urlo che, direbbe Maria Zambrano, «consuma il tempo integralmente, lo riempie», prima di trasformarsi, forse, adattandosi alle pause, in parola; o, nel caso di Marina Ballo Charmet, un suono sommesso, divenuto immagine.