Franco Battiato era nato e cresciuto – infanzia, adolescenza e prima giovinezza – nella raggiante, insieme povera e illustre, Sicilia degli anni quaranta, cinquanta e sessanta, e precisamente in quel lembo di terra stretto tra il vulcano e il mare, tra l’Etna e lo Jonio, tra il fuoco e l’acqua, così assorbendone gli umori acri e le dolcezze infinite, il miele e il lutto (giusto per ricordare, parafrasandoli, un paio di titoli di Gesualdo Bufalino, uno scrittore che apprezzava), la speranza e la perdita e poi, ancora, il tempo senza tempo che allora la storia appena era capace di sfiorare lasciando intatta ogni vita e, insomma, la vita come era sempre stata per secoli, sacra e immutabile e immacolata nel suo destino di attesa e di memoria, di contemplazione e di dolore.

LUCE ABBAGLIANTE
Battiato portò dunque con sé, nella Milano a quell’epoca veramente nebbiosa e veramente civile, il sentimento profondo e midollare della sineciosi, dell’ossimoro, dei contrasti forti e permanenti. E allora ecco l’abbagliante luce meridiana che chiama a sé il refrigerio dell’ombra, il rifugio del riposo e del fresco ristoratore – come in Veni l’autunnu, una canzone in dialetto, disarmato verbo di devozione e di amore per la terra sua: «Stamu un pocu all’ummira/ca c’è troppu suli», che è poi il destino di chi vive nell’isola e di chi la lascia pur non lasciandola mai del tutto oppure, comunque e alla fine, per poi farvi ritorno pur rimanendo viandanti verso una ricerca dall’approdo incerto e indecifrabile, come in una sorta di infinito intrattenimento oscillante tra desiderio di un possesso e possesso vero e proprio, qui e ora. Ma, osservando bene, mai vi è possesso al presente nella musica e nelle parole di Battiato. Si possiede semmai il passato in quanto irrimediabilmente perduto epperò cogente e addirittura sensualissimo (come, ad esempio, in Zone depresse: «Mi regali ancora/timide erezioni./Guardavo di nascosto/i saggi ginnici nel tuo collegio») o il futuro in quanto promessa e conquista, al pari di una salita al Mont Ventoux o al Monte Carmelo.
Nulla di astratto si rintraccia, al postutto, nell’incessante e gioioso scavo e percorso spirituale di Battiato e nulla di irrelato, inoltre, dalla corporalità, dalle stupende, piccole o grandi estasi del puro e semplice, breve o lungo che possa essere, «transito terrestre» («e mi piaceva tutto della mia vita mortale,/anche l’odore che davano gli asparagi all’urina», si sottolinea in Testamento). Ogni passaggio appare limpido e trasparente nel lungo percorso di questa meravigliosa mente musicale – e musicale, ovviamente, anche nelle parole e nella voce educatissima, specchio fedele e intenso della bontà, della tenerezza e della generosità di una persona in ogni senso bella e radicata nel bene e nel rispetto verso ciò e chi li meritava e tuttavia, a seguire, capace di impazienza e di invettiva nei confronti dell’egoismo sociale, della malversazione, della violenza, della disgregazione del tessuto pubblico, degli «abusi del potere/di gente infame che non sa cos’è il pudore», dell’impostura morale dei governanti qualora essi, per loro demerito e per loro responsabilità, si trasformino in «perfetti e inutili buffoni» (impressiona, a tal proposito, che Povera patria, con l’evocazione di «quei corpi in terra senza più calore», sia stata composta nel 1991, ben prima delle stragi di mafia in cui persero la vita Falcone e Borsellino). Compassione e indignazione, dunque, «sguardo feroce e indulgente», formidabile capacità di lettura del presente e prefigurazione di un tempo a venire, di un destino collettivo. Sebbene a Battiato il mondo moderno poco piacesse, pure egli fu a suo modo più moderno di ogni moderno. Sperimentatore instancabile, attratto da ogni forma d’arte (dalla pittura al cinema, entrambi praticati), egli non fece che devolvere l’immenso portato del modernismo novecentesco alla causa della tradizione come possibilità futura. Quello che veniva scambiato per dadaismo, specialmente negli album Patriots e La voce del padrone (ma, con minore frequenza, anche altrove), non era che la messa in scena di una forte consapevolezza della disseminazione dell’io, della frantumazione del soggetto ovvero della ferita gloriosa che il secolo aveva inferto all’idea di centro. Di tale ferita, produttiva di molte cruciali esperienze, Battiato si fece carico, mostrando tuttavia nel corpo del proprio lavoro di compositore le aporie che una simile perdita aveva prodotto e anche il desiderio di una qualche ricomposizione, come a voler lenire il dolore di un arto mancante. Se questo ha valore di verità, allora appaiono fuori luogo e persino (in senso letterale) meschine le categorie, adottate soprattutto ad uso delle semplificazioni giornalistiche, per definire Battiato, vale a dire se egli sia stato di destra o di sinistra, un rivoluzionario o un reazionario, un progressista o un conservatore.

AMOROSI SENSI
Di certo, era irriducibile nella ricerca e poi nello sguardo ostinato con cui osservava gli uomini, le cose, tutte le creature viventi e la natura e nel peso che sapeva dare ai suoni e alle parole. Disprezzava il potere e non si curava del successo che per lui era nulla. Lo sapeva e lo capiva il suo pubblico, coloro che lo seguivano nei concerti e ne ascoltavano le canzoni – un rapporto specialissimo, serio e rispettoso e appassionato, impastato d’amorosi sensi. Lui, che è sempre vissuto ed è morto da figlio, lascia proprio a coloro che condividono e apprezzano ciò che ha pensato e scritto «l’imparzialità» del giudizio, «la volontà di crescere e capire» e i suoi «esercizi sulla respirazione» e agli amici «gli anni felici/delle più audaci riflessioni» e «la libertà reciproca di non avere legami» ossia catene.
Con questa stessa libertà e felicità, Battiato trovò nelle esperienze dei grandi mistici d’Oriente e d’Occidente il nutrimento e la forza per difendere dal mondo esterno la propria delicatezza, la propria umanissima e struggente fragilità. Era la sua spiritualità, in altri termini, una consolazione, un pilastro che lo sostenesse negli inevitabili momenti della caduta e del buio.
Finora è stato volutamente lasciato da parte, qui, il miserabile pronome personale di colui che scrive. Ma sento la necessità di ricorrervi per dire che Battiato era una persona perbene, specchiatissima, e un uomo generoso, buono, divertente, ricco di humor, colto, capace di ascoltare, curioso di tutto, calorosissimo, accogliente. In sua compagnia si trascorrevano momenti indimenticabili, tra i più belli che si possano immaginare. Era, insomma, una gioia essergli amico. Mai pedante, l’esatto contrario di un secchione serioso. Si scherzava su una cantante italiana che, mortificando le sue straordinarie aperture vocali, si produceva in esercizi di stile sin troppo pretenziosi. Fummo d’accordo, ridendo di gusto, che non bisognava in nessun caso confondere la noia con la (assai presunta, in quel caso specifico) profondità. Gli volevo molto bene e ora gliene voglio, se possibile, di più.

* È autore del libro «Fenomenologia di Battiato» (Auditorium)