Se si chiede ad una qualsiasi profumeria quali sono al momento i prodotti più venduti, la risposta è netta: il trucco per gli occhi; altro prodotto che va per la maggiore, ovviamente, sono le mascherine antivirus. Mascherine e mascara dunque, un binomio affatto nuovo nel panorama occidentale di massa, ma che affonda, come vedremo, le sue radici nei principi stessi dell’Alchimia, il cui scopo è la conoscenza delle Verità ultime, non a caso percepibili attraverso quel «vedere» da sempre ritenuto il senso che illumina la Sapienza. E allora, cosa collega mascherine e mascara, cosa ci dice questa forma di cosmesi che tende ad esaltare lo sguardo femminile?

Cosmo e cosmesi
Certo la prima cosa da ricordare è ciò che definisce l’idea stessa di «cosmesi». Come noto la parola ha la stessa radice di Cosmo, il che fa riecheggiare ancora, in queste pratiche oramai quasi totalmente secolarizzate, qualcosa di sacro, sia in senso cosmogonico, cioè della ricreazione permanente del Cosmo, sia in senso sacrificale, cioè dei gesti di riconoscimento verso ciò che ha ci ha dato l’esistenza. A. K. Coomaraswamy, nel suo saggio Ornamento, chiarisce la relazione essenziale tra l’atto cosmetico e la persona che lo agisce: «La parola greca kosmos significa in primo luogo ‘ordine’, con riferimento sia al giusto ordine o disposizione delle cose sia all’ordine del mondo, in secondo luogo ‘ornamento’ delle donne. Il corrispondente verbo kosméo vuol dire ‘ordinare o disporre’, e secondariamente equipaggiare, ornare o vestire. In relazione alla cosmesi si può rilevare che nella nostra moderna prospettiva estetizzante l’originario scopo degli ornamenti del corpo risulta del tutto incomprensibile. Il rapporto tra l’ornamento e il soggetto è simile a quello esistente tra la natura individuale e l’essenza: astrarla significa ‘denaturarla’. L’ornamento è dunque aggettivale, e senza aggettivi nulla che abbia un nome può avere un’esistenza individuale».

Truccarsi significa, dunque, sia ripetere il gesto originario della creazione che trae il Cosmo dal Caos, sia fare un gesto sacrificale, cioè di tributo a queste stesse Potenze creatrici. Appare chiaro allora come il mascara, l’ombretto, il kohl, e quant’altro, esaltino lo sguardo in quanto elemento cosmetico che resta in evidenza nonostante la mascherina, o meglio proprio mercé questa, agendo come veri e propri «dispositivi ornamentali» nel senso che richiamano l’ordine cosmico esaltando, al tempo stesso, la relazione «tra natura individuale e l’essenza», dove quest’ultima è l’eterna Anima Mundi che tutti sostiene ed alla quale tutti apparteniamo. Qui dunque comincia ad emergere la relazione tra cosmesi ed erotismo se questo, come ci ricorda G. Bataille, è «portare la vita sin dentro la morte». In altre parole il gesto cosmetico è un gesto di creazione, poietico, che ritraendo in continuazione il Cosmo dal Caos si oppone alla morte.

Ecco allora che iniziamo a comprendere la potenza erotica dello «sguardo mascharato» che emana il suo fascino da sopra la mascherina. Ed è proprio la relazione tra i due elementi che rende la carica sensuale ancora più evidente, dato il contrasto tra lo sguardo cosmizzante e la mascherina simbolo di contagio, e dunque di morte: un binomio che si rispecchia in pieno nella definizione di Bataille. E così, mentre in altri contesti culturali lo sguardo femminile diviene l’unico «fissante» dell’erotismo cosmetico in cui si coagula l’aura di un corpo altrimenti nascosto, nel caso della mascherina anticontagio la relazione tra Eros e Thanatos entra in gioco creando le polarità attraverso lo sguardo scioglie ed emana l’aura erotica di tutto il corpo.

Nel mondo antico cosmesi e Cosmo trovano una mirabile sintesi nella figura delle Muse, le fanciulle divine, figlie di Zeus e Mnemosyne, la Memoria. Nella situazione presente, che presto trascorrerà, in un senso o in un altro, è estremamente importante ricordare ciò che stiamo vivendo, per non sprecare una tragica lezione. Ed allora prendiamo a narrazione della loro nascita uno degli inni di Pindaro in cui il poeta evoca il momento in cui Zeus stava per festeggiare le sue nozze con Temis, sua prima sposa e madre di Atena. Come ci ricorda D. Susanetti nel suo Luce delle Muse: «Con lo stabilirsi della signoria di Zeus tutto sembrava giunto a una forma perfetta e definitiva. Ma il sommo dio, quasi per togliersi un dubbio, volle interpellare gli altri membri della famiglia celeste: vi era forse ancora qualcosa che mancava? Gli dèi risposero sollecitandolo a creare alcune altre divinità che fossero in grado, con le parole e la musica, di ordinare e ornare (katakosméin) la sua grande opera e l’intero assetto che aveva prodotto. Per questo Zeus subito provvide a generare le Muse. Ma come intendere tale racconto? Kosmos significa ‘ordine’ e ‘ornamento’ e, in quanto tale, indica l’universo stesso . La voce delle divine fanciulle non si limita, semplicemente, a celebrare ciò che è stato creato, ma lo ordina, e nell’ordinarlo, lo adorna: lo dota di significato e di bellezza». Ecco che allora, in modo del tutto complementare, possiamo altresì dire che chi si adorna celebra ciò che è stato creato ricreando così l’universo stesso. E non è precisamente questo l’arcano del fascino racchiuso nello «sguardo mascarato»?

Solve et coagula
Solve et coagula è l’apoftegma alchemico che riassume le principali manovre dell’Opus Magnum. Abbiamo detto che lo «sguardo mascarato» ha una forte valenza ermetica, perché? Semplicemente poiché, oltra al significato erotico-cosmologico di cui abbiamo già parlato, gli elementi stessi del trucco per gli occhi erano, e sono ancora oggi, usati dagli alchimisti per le loro trasmutazioni. L’ombretto, ad esempio, deriva dal kohl impiegato, secondo il Libro di Ezechiele (23:40), dagli Egizi sin dal 10.000 a.C.. Anche Isaia (3:16) ne parla in termini sessuofobici. «Dice il Signore: poiché si sono insuperbite le figlie di Sion e procedono a collo teso, ammiccando con gli occhi, e camminano a piccoli passi facendo tintinnare gli anelli ai piedi, perciò il Signore renderà tignoso il cranio delle figlie di Sion, il Signore denuderà le loro tempie».

In origine il mascara, che deriva dall’italiano maschera, derivato a sua volta dall’arabo maskara che significa buffone, dunque sempre legato ad una «maschera», era un composto formato da ocra, malachite, cenere, piombo, ossido di rame, mandorle bruciate e soprattutto crisocolla, un minerale rameico tendente al blu che riscaldato non fonde ma diventa nerastro e viscido, come una salamandra. Ora questo animale ha notoriamente un ruolo centrale nel simbolismo trasmutativo, a cagione della sua relazione col fuoco. Se si andasse presso ciò che resta della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi, sul lato sinistro della chiesa, si potrebbe ancora vedere la Porta Rossa, presso cui, nel giorno di Saturno, come ci ricorda Fulcanelli ne Il Mistero delle Cattedrali, si ritrovavano gli adepti; ebbene sono le fenici e le salamandre ad ornare questa porta alchemica. E dunque per le corrispondenze che esistono tra i vari regni naturali la crisocolla era centrale in molte ricette alchemiche, come quella che riportiamo, tratta dai due papiri di Leida e Stoccolma, risalenti all’epoca di Costantino. Qui sono contenute le più antiche ricette alchemiche e gli ingredienti sono analoghi a quelli documentati nei testi di Dioscoride, Plinio, Galeno, e dunque risalenti al mondo antico. In particolare la crisocolla viene usata per produrre un prodotto inorganico noto anche come colla d’oro da cui il suo nome di origine greca (criso: oro). Il colore verde la rende adatta alla fabbricazione di falsi smeraldi, come impariamo da questa ricetta: verderame vero, crisocolla, bile di tartaruga, cristallo affumicato.

Visione e conoscenza
Ma, soprattutto, lo sguardo è il luogo stesso della visione, di quel vedere ritenuto il senso della conoscenza perfetta. La vista è legata alla percezione della luce, simbolo archetipico della Verità. Qui la cosmesi esprime dunque un intento preciso: ottenere uno sguardo più luminoso, più profondo, più intenso; concetti fisico-spaziali che compongono altrettante metafore, adatte non solo al raggiungimento della Verità, ma anche per la sua continua rigenerazione. Nei misteri Eleusini si cercava l’epopteia, la «Visione delle Cose Ultime», di «Quelle Cose»; nei Veda, l’insieme dei testi sapienziali che trattano della Scienza sacra e tradizionale per eccellenza, la radice vid significa, al tempo stesso, vedere e sapere. D’altronde anche nel linguaggio figurato comune la conoscenza profonda è paragonata ad una visione interiore.

Ma nell’intento (in-tensio), dello sguardo femminile, o forse meglio, dello sguardo al femminile, c’è qualcosa di molto più potente: la rigenerazione stessa della Realtà. A questo proposito vale richiamare un esempio per tutti: la visitazione dello Spirito Santo, la Luce ineffabile che impregna il corpo della Vergine Maria che poi a sua volta «darà alla luce» il Fanciullo. Maria accetta l’annuncio di Gabriele, il suo amen è l’essenza stessa del miracolo della nascita divina: ma senza l’atto di volizione di Maria che decide attraverso il suo sguardo, di accettare questa grazia inaudita, quella Luce non sarebbe potuta diventare quella carne che fa del Salvatore il Figlio unigenito di Dio. Qui la metafora, in chiave cristiana ma derivata dall’antichità pagana che vede la Dea come Grande Madre, indica come ci debba essere una volontà dello sguardo per essere impregnati dalla Luce della Conoscenza, e che senza questa volizione la Luce non si fa carne: non si fa Eros.

Ora, lo sguardo iniziale di Maria, quegli stessi occhi che segnalarono l’accettazione del voler diventare la Madre di Dio, di generare una nuova vita, scopo finale di ogni eros, trova un corrispettivo nel ruolo che Maria ha nella resurrezione stessa del Figlio. Se, infatti, osserviamo bene alcune cerimonie cristiane del Sud d’Italia in occasione della Pasqua, ad esempio la processione dei Misteri di Taranto, vediamo come la ricerca del Cristo Morto da parte della Madonna altro non è che la necessaria ricerca da parte della Grande Dea, cioè Maria Vergine e Madre di Dio, del corpo del figlio allo scopo di farlo rinascere. Sarà, infatti, l’Amore, sintesi simbolica di tutti gli amori, terrestri ed ultraterreni, della Madre per suo Figlio, cioè della Grande Dea per tutte le sue creature, a ridargli la forza vitale, a «ricomporre il corpo sparso», scomposto nel pane e nel vino dell’eucarestia. È tanto poderoso questo gesto che alla fine della sua vita Maria, donna mortale ma sempre Madre di Dio, non muore: si addormenta in un sonno eterno, la cosiddetta koimesis mariana, chiude dunque per sempre quegli stessi occhi attraverso i quali la Luce del divino si è fatta carne.
Chi scrive ricorda esperienze analoghe che determinarono la nascita del rispetto e dello stupore per questa gestualità poietica: da ragazzo quando si andava a lavoro al mercato bestiame all’alba per guadagnare quel poco di lire che servivano per un pasto alla mensa universitaria, sul treno dei pendolari, vedevo salire queste donne, ragazze o signore, che andavano al lavoro perfettamente truccate, ed il loro sguardo su di me, ancora mezzo addormentato ed intirizzito, era più caldo del sole pallido che stava nascendo, anzi era quello che lo faceva sorgere, che mi faceva risorgere.

Riprendendo il filo della simbologia dello sguardo cosmetizzato, possiamo allora capire come esso sia necessariamente sostenuto da un particolare intento. Il gesto cosmetico è, infatti, sempre impegnativo, consapevole, mai meccanico: richiede in altre parole diuturnamente una presa di coscienza di se stessi. Sembra di vedere qui ogni donna che si pone di fronte a se stessa intenta a truccarsi gli occhi, ed in quell’intento riprendere attraverso la cura di sé la conoscenza del Sé. La parola intento contiene dunque proprio questa segnatura etimologica: svela la tensione nella volontà di uno sguardo che cerca di spingersi verso la visione del sé personale all’interno del Sé universale, ma anche tra Visibile ed Invisibile. L’atto della cosmesi, dunque, è inteso come necessità di cogliere la «trama nascosta» per ricongiungerla con «quella manifesta» come dice Eraclito.

Lo sguardo cieco
Alla polarità opposta, e dunque assolutamente complementare, dello sguardo cosmetizzato, troviamo quello accecato che, non a caso, è totalmente appannaggio di personaggi maschili. Sembra che il loro sguardo possa reggere l’urto della Verità, o assimilare la sua luce, solo attraverso questa modalità. La Tragedia greca, ad esempio, fonte di sapienza sotto forma di arte popolare, troverà i suoi protagonisti nelle figure di Edipo e di Tiresia, cioè di veggenti ciechi immersi nel buio della visione del mondo palese per poter così riacquistare quella delle verità nascoste. Figure emblematiche dell’uomo – «sono gli uomini a volere che i veggenti siano ciechi» dice F. Dürrenmatt in La morte della Pizia – sono costretti, certo loro malgrado, ad «oscurare» l’abbagliante lucentezza delle cose manifeste, per poterne intuire la fonte.

In particolare non dimentichiamoci che Tiresia fu reso cieco da Era poiché, avendo vissuto una parte della sua vita da donna, aveva colto il segreto dell’eros femminile, quella Potenza che si svela appunto nello sguardo. Ed anche la sua fama come indovino fu determinata da uno sguardo: quello di Narciso, alla cui madre, la ninfa Liriope, che significa «dagli occhi sfacciati», egli aveva predetto il destino. Qui ci vengono alla memoria le varie raffigurazioni dei veggenti ciechi: essi hanno tutti una benda sugli occhi. E allora, in conclusione, lo «sguardo mascarato» che oggi ci attira nella sua profondità luminosa, è una soglia al di là della quale dovremmo poter cogliere la lezione che lo ha imposto: siamo noi a ricreare ogni momento il mondo attraverso lo sguardo che abbiamo sulle cose poiché anch’esse, quando le guardiamo come parte della stessa essenza universale ci ri/guardano: ci riguardano.