Dagli scontri con la polizia alla convention democratica di Chicago, nel 1968, agli accampamenti losangelini di Occupy, nel 2011, passando per alcuni dei film più importanti della Hollywood anni sessanta/settanta, l’occhio di Haskell Wexler ci ha raccontato l’America unendo una carriera che ne ha fatto uno dei grandi direttori della fotografia dei nostri tempi a un percorso originalissimo di documentarista animato da una passione militante coltivata già da piccolo a Chicago, quando in famiglia si discuteva di diritti civili (i suoi genitori, benestanti, erano molto amici di Paul Robeson) e ci si auspicavano «rapporti meno tesi con l’Unione Sovietica e una legge federale contro il linciaggio».

 

 

Wexler, che era daltonico ma ha girato quello che molti considerano il primo film in cui il colore della pelle di un afroamericano è illuminato in modo «giusto», La calda notte dell’ispettore Tibbs di Norman Jewison (1967), è morto domenica a Santa Monica, all’età di 93 anni.

 

 

Affiancando un’affinità per il cinema commerciale d’impegno politico a un amore per il mezzo e la sperimentazione che per molti anni ne ha fatto il complice ideale di registi emergenti e più giovani di lui, Wexler è stato il direttore della fotografia, tra gli altri, di Il ribelle dell’Anatolia (1963) di Elia Kazan, Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols (del 1966, il primo Oscar di Wexler e l’ultimo attribuito a un film in bianco e nero), Faces di Cassavetes, La conversazione di Francis Coppola (su cui però non è accreditato), dei film di Hal Ashby Tornando a casa (1978) e Questa terra è la mia terra (del 1976, il biopic su Woody Guthrie per cui vinse il secondo Oscar); del caper spionistico Il caso Thomas Crown (ancora Jewison, nel 1968) e di Qualcuno volò sul nido del cuculo (1976), un set da cui venne licenziato. Perché aveva un cattivo carattere, secondo il regista Milos Forman; ma Wexler sostenne sempre che il licenziamento fu la conseguenza dei suoi rapporti con alcuni membri del gruppo radical Weather Undeground, allora ricercati dalla polizia, e su cui fece un documentario, Underground (1977). Qualcuno volò sul nido del cuculo ricevette una nomination per la miglior fotografia, co-firmata da Bill Butler, che lo aveva rimpiazzato. «Rimasi devastato. Ci sono solo uno o due minuti del film di che non ho girato io», ha dichiarato Wexler al «New York Times», nel 2010.

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Lo stile immediato delle sue immagini («molto spontaneo e vivo» nelle parole di John Sayles), che favoriva la luce naturale, e quindi così diverso da quello del cinema da studio, ha fatto di Wexler un prediletto delle generazione dei giovani registi della Nuova Hollywood. Ancora completamente sconosciuto, George Lucas lo volle come consulente speciale su American Graffiti e Terrence Malick lo affiancò a Nestor Almendros per I giorni del cielo (’78). Nell’88, Dennis Hopper lo avrebbe chiamato come direttore della fotografia per il suo film sulle gang losangeline, Colors, Sayles per il suo film sugli storici scioperi dei minatori in West Virginia, Matewan (’87) e, nel 1995, Michael Moore avrebbe affidato a Wexler la fotografia del suo unico film di fiction, la commedia satirico/pacifista Canadian Bacon.

 

 

Forse più ancora della vividezza e dell’inventiva del suo lavoro di direttore della fotografia, ciò che rese Wexler un eroe agli occhi delle nuove generazioni, e che è rimasto fino alla fine uno dei grandi punti di orgoglio della sua lunga, intensissima, carriera, è Medium Cool (1969), il suo primo lungometraggio da regista, un lavoro d’innovazione miliare nella storia del cinema americano, documentario e non. Inedito (allora) sovrapporsi di realtà e fiction, il film è ambientato durante la convention democratica di Chicago, nell’agosto 1968.

 

 

 

 

Tenutasi solo due mesi e mezzo dopo l’omicidio di Robert Kennedy (la nomination, per cui correva lui, andò quindi al suo avversario, Hubert Humphrey) e tre mesi prima della vittoria di Richard Nixon, la convention fu segnata da grosse manifestazioni anti Vietnam e per i diritti civili, duramente represse dalla polizia e dalla guardia nazionale, chiamata dal sindaco (democratico) della città Richard J. Daley. Dopo un breve periodo di studi all’Università di Berkeley, e dopo essersi arruolato nella marina mercantile durante la seconda guerra mondiale, Wexler aveva cominciato a fare documentari industriali in partnership con un altro futuro direttore della fotografia hollywoodiano, Conrad Hall. Anticipando che qualcosa sarebbe successo durante la convention (registrò il copione presso il sindacato degli sceneggiatori nel luglio di quell’anno), decise di tornare nella città dove era nato e girare un film ambientato in quei giorni. La trama, esilissima, ruota intorno alla crisi di coscienza del cameraman di una Tv locale (Robert Forster) che scopre che l’FBI ha avuto accesso al suo girato e lo sta usando per identificare eventuali attivisti politici. Aiutato dal leggendario giornalista chicagoano Studs Turkel, Wexler entrò in contatto con Fred Hampton e altri membri delle Black Panthers, che appaiono nel film insieme a riprese degli scontri tra manifestanti e polizia.

 

 

 

Con il titolo che è una citazione diretta da Marshall McLuhan, Medium Cool rimane oggi non solo un titolo paradigmatico del rapporto tra fiction e non nel cinema, ma uno dei grandi testi (a partire dalla prima scena in cui il cameraman e il suo fonico filmano una ragazza morente dopo un incidente d’auto) sulla responsabilità dello sguardo. É la responsabilità a cui Haskell Wexler ha dedicato tutta la vita.