Non è difficile collocare Tomás Downey, nato a Buenos Aires nel 1984 e autore di due libri di racconti – il secondo, Il posto dove muoiono gli uccelli (pp.120, euro 13) appare ora presso Gran vía, nella traduzione di Olga Alessandra Barbato – all’interno di un nutrito drappello di scrittori contemporanei argentini che include anche nomi già noti al pubblico italiano, come Samanta Schweblin, Luciano Lamberti, Mariana Enríquez, Pedro Mairal (il suo El año del desierto è una strepitosa distopia che non sarebbe male tradurre), o Ricardo Romero, il cui nuovo romanzo El conserje y la eternidad registra la presenza di un vampiro che attraversa gli anni più foschi della storia nazionale.

CON STILI molto differenti, questi autori e altri ancora lasciano affiorare la fascinazione per l’ambiguità e il non detto, le visioni post-apocalittiche, gli interrogativi sui limiti dell’umano, il dissolversi di ogni certezza; nessuno di loro si può davvero definire uno scrittore gotico, ma del gotico rivisitano spesso le risorse, creando un clima di oscura minaccia anche quando il soprannaturale non è una presenza esplicita. Sono, a ben guardare, le crisi politiche degli ultimi decenni, l’estrema crescita della povertà, l’incombere del caos sociale (fantasma sempre presente in Argentina) a venire rappresentati nei termini più diversi e inquietanti in questa narrativa che sarebbe eccessivo, ma non del tutto improprio, chiamare neogotica.

Anche Il posto dove muoiono gli uccelli si inserisce a suo modo in questo filone, alternando racconti marcatamente fantastici e altri più realistici, ma comunque perturbanti: un accostamento che suggerisce nuovi significati e crea un contrasto significativo, pieno di tensione.

Così il protagonista bambino di «Il primo sabato del mese» scopre di colpo la possibilità della morte attraverso l’enorme cicatrice di un’operazione, disegnata sul torace di un nonno prepotente e macho, mentre in «Variabili» una giovane madre che lavora in casa, analizzando dati statistici, rinchiude ogni giorno sul balcone il figlio che sta facendo i primi passi, decisa a sanare la fessura che la sua presenza ha aperto nella rigidissima routine produttiva cui si è consacrata.

CON UNA SCRITTURA essenziale, che rifugge dalla metafora e dall’allegoria e si rifugia in frasi brevi e immagini vivide e precise, Downey disegna atmosfere oppressive, surreali, cupe o sottilmente ironiche, conferendo un’assoluta naturalezza all’inesplicabile, scatenato da sovvertimenti misteriosi dei quali non conosciamo ragioni e origini.

IN «ZOO», PER ESEMPIO, una parte dell’umanità è rinchiusa per il divertimento altrui in un giardino zoologico dove soltanto alcuni mantengono la coscienza di sé, e in «Gli uomini vanno alla guerra» una donna (prigioniera di un tempo immobile, o vittima di una sadica burocrazia?), riceve più e più volte la notizia della morte di suo marito in un conflitto senza fine, ripetuta con identiche parole da messaggeri ufficiali. «Sorelle», sul sortilegio sanguinoso inventato da tre bambine che sperano di eliminare il padre, e «Il posto dove muoiono gli uccelli», ambientato tra la deriva familiare innescata da una nuova nascita e il bosco tenebroso e fiabesco dove due sorelline «giocano» al cimitero, sono in realtà racconti privi di elementi fantastici, ma con una tale impronta terrifica da rimandare al vasto immaginario letterario e filmico sull’alterità e la crudeltà infantile (e, sebbene Downey non la citi tra gli autori che preferisce, è qui impossibile non pensare a Silvina Ocampo e ai suoi terribili ritratti di infanzia).

SOTTO LA SUPERFICIE dei racconti scorrono, intense e pervasive, due correnti sotterranee: una è la famiglia, la coppia, sistema sempre sull’orlo dell’implosione. L’altra è la morte, declinata in molteplici varianti: animali in putrefazione, sacrifici rituali, guerre, finzioni mediatiche o apparizioni, come in «La pelle sensibile», dove una delle figure classiche del gotico, il fantasma, si insinua muto e incalzante nelle giornate della donna amata, obbligandolo infine ad accettarne la presenza, con tutti i segni della malattia che l’ha ucciso. Visioni alternative spuntano come funghi velenosi dalla superficie della quotidianità, e ogni narrazione appare un piccolo universo a sé, contraddistinto da un’ambiguità estrema, perché nulla viene mai spiegato e i racconti non hanno un vero finale, ma a concluderli è piuttosto un’immagine che in un certo senso li riassume.

Con singolare asciuttezza, Downey si limita a mostrare ciò che accade, non giudica né si pronuncia, offre al lettore un’illimitata libertà di interpretazione e allo stesso tempo lo obbliga a convivere con l’eco di ogni storia, insieme al disagio, alle ipotesi e alle riflessioni che porta con sé.