Una nube fuori dall’ordinario, simile alla silhouette di un pino che si slancia verticalmente per poi ramificarsi: è l’immagine dell’eruzione del Vesuvio che Plinio il Giovane affiderà a Tacito affinché la fama di suo zio Plinio il Vecchio – «deceduto nel disastro delle più incantevoli plaghe» – divenga imperitura. Il 79 d.C. è una data memorabile già per gli antichi. Il 24 agosto di quell’anno, Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis – luoghi ameni della Roma repubblicana e dell’impero – vengono travolte da un’implacabile pioggia di lapilli e ceneri. La danza dei fauni si ferma in punta di piedi mentre specchi finemente cesellati vanno in pezzi, infrangendo gli sguardi di Veneri ammalianti. Persino le dimore degli dèi soccombono alla furia del vulcano, il fato appone un malinconico sigillo sulla bellezza dei giardini in fiore.

Bisognerà attendere il 1748 per veder riemergere dalla terra le tracce di quel funesto evento, a testimoniare che se la morte fu dolorosa, la grazia dell’arte sopravvisse per conquistare i posteri. Ed è proprio alla fascinazione che la scoperta fortuita delle metropoli vesuviane provocò tra XVIII e XX secolo su artisti e intellettuali, che è dedicata la mostra Pompei e l’Europa. 1748-1943 al Museo archeologico nazionale di Napoli (fino al 2 novembre). Promossa dalla Soprintendenza speciale per Pompei, Ercolano e Stabia e dalla Direzione Generale del Grande Progetto Pompei con il Man, la rassegna è organizzata da Electa e vanta il patrocinio di Expo 2015.

I meandri della Storia
Più di 200 opere tra reperti antichi e meraviglie moderne – dipinti, disegni, stampe, progetti architettonici, fotografie, sculture, oggetti, libri – provenienti da grandi musei italiani e stranieri sono riunite nel salone della Meridiana del Man, a cura di Massimo Osanna, Maria Teresa Caracciolo e Luigi Gallo. L’allestimento è di Francesco Venezia, architetto internazionalmente noto e sensibile al rapporto tra forma, memoria e sentimento (suo il progetto del museo di Gibellina). È lui stesso a spiegarci come ha plasmato la materia delle idee per arrivare a un percorso espositivo coinvolgente: «Con i suoi 20 metri d’altezza e 1200 metri quadri di superficie, l’aula della Meridiana divora lo sguardo, catalizzandolo verso l’alto. Una mediazione tra opere e sala era indispensabile e perciò ho realizzato una copertura che favorisse la circolazione dei visitatori in strade periferiche e strette, le quali confluiscono nel vuoto dello spazio centrale. Quest’ultimo è racchiuso in un trapezio, una figura geometrica arcaica apprezzata anche da Michelangelo».

Il meandro concepito da Venezia si fa così metafora del perenne ritorno di Pompei e del suo affacciarsi, in tempi diversi, alla Storia. E se nel 1804 Chateaubriand sognava di tramutare la città vesuviana nel plus merveilleux musée de la terre, lo scopo della mostra al Man è perseguire il cammino della conoscenza, riconsegnandoci quel potere evocativo che favorì l’irraggiamento culturale del sito. La scoperta di Ercolano e Pompei, seppellite da un tragico prodigio e custodite per millenni nelle utopie di chi ne vagheggiava il risveglio, fu una delle più sorprendenti rivelazioni del Settecento europeo. Espressione di tale euforia è il clin d’œil d’ingresso all’esposizione simboleggiato dal bronzo d’Hippolyte Moulin Una scoperta a Pompei (1863), in prestito dal Museo d’Orsay di Parigi.

Le rovine di Ercolano riaffiorano nel 1738, seguite – dieci anni dopo – da quelle di Pompei, che dal 1764 diviene il principale fulcro di ricerca per gli archeologi, grazie a una maggiore facilità di scavo nel lapillo rispetto all’ostica lava stratificatasi a Ercolano. La Campania costituiva allora l’epicentro del Regno delle due Sicilie, retto dalla dinastia dei Borbone di Napoli. L’entusiasmo suscitato da Pompei nei viaggiatori si coglie nel ritratto di Goethe eseguito da Wilhelm Tischbein nel 1787, che – con la prima rappresentazione dell’eruzione del Vesuvio di Jacob More (1780), iconografia di successo dell’ultimo giorno di Pompei – apre emotivamente la mostra. «Ritorna indietro il passato? Greci, Romani, oh venite! Vedete, risorta è l’antica Pompei, di nuovo si erge la città di Ercole!», scriveva nel 1796 Friedrich Schiller.

A trascinarci da subito in quel clima di frenesia per l’Antico cantato dal poeta tedesco sono le vedute di Louis-Jean Desprez, che immortala con acquerelli in tinte scure il tempio di Iside, scatenando una dirompente egittomania. Nel Settecento, gli scavi strappano oggetti d’arte e pitture al contesto e gli affreschi pompeiani s’impongono come modelli figurativi.
Anche Antonio Canova cede al loro richiamo, seducendoci ancor oggi con due tempere su carta leggiadre e superbe – Cinque danzatrici che reggono corone; Cinque danzatrici con velo e corone (1798-99) – e una diafana tela in cui riappare il Mercato degli Amorini (1797-1807).

Antonio Canova, Cinque danzatrici con velo e corone, 1798-1799
Antonio Canova, Cinque danzatrici con velo e corone, 1798-1799

Nel contempo, i temi derivati dalle antichità vesuviane offrono spunti alle arti decorative; ceramiche e mobilio destinati a residenze principesche ne portano segni e rivisitazioni, come nel Giuoco souvenir delle Due Sicilie, teiera con eruzione del Vesuvio e tazze e piattini con centauri della Real Fabrica di Porcellana di Napoli (1794-1802?). Nel 1780, sotto la direzione dell’architetto Francesco La Vega, comincia il restauro parziale degli edifici pompeiani e gli artisti di tutta Europa si affrettano a illustrarne l’aspetto. Fra essi, spiccano Jean-Honoré Fragonard e Giovanni Battista Piranesi, dei quali il Man di Napoli ospita alcune raffinate vedute. Figure rappresentative nella storia di Pompei sono anche gli allievi dell’Accademia di Francia a Roma: attraverso i loro disegni ammiriamo «dal vero» e in una ricostruzione visionaria gli edifici del Foro, del Tempio di Apollo e del Quartiere dei Teatri. «Ognuno poteva immaginare che gli fosse stato consentito, risalendo nel corso dei secoli, di percorrere le strade e le piazze della città addormentata», narrava nel 1854 Gérard de Nerval.

Sensualità e compassione
La riflessione sull’architettura domestica e il suo decoro costituisce uno degli elementi più innovativi nell’approccio al sito archeologico. Nel museo di Napoli, gli artisti scrutano gli affreschi antichi e ne riproducono copie. In mostra, ritroviamo l’opera di Gustave Moreau Frammento di Achille e Briseide (1859), affiancata all’originale della Casa del poeta tragico a Pompei (metà del I secolo d.C.). Ancora Moreau ripeterà con nostalgico moto Achille e Chirone (1859), dopo esser stato soggiogato dall’omonimo dipinto svelato nell’Augusteum di Ercolano. Siamo ormai nella temperie ottocentesca e mentre gli studiosi mirano all’approfondimento scientifico, gli adepti del Romanticismo trasformano le rovine pompeiane in scenario per romanzi, poemi e opere liriche.

Emblematico, in questo senso, è il best-seller di Edward Bulwer-Lytton, Gli ultimi giorni di Pompei (1834), al quale seguiranno le numerose pellicole cinematografiche dal medesimo titolo. Sin dagli inizi dell’Ottocento era stata la sensualità delle figure femminili pompeiane e la «dolcezza» dei costumi a colpire l’immaginario degli artisti. Fra le opere in prestito al Man, Fanciulla nuda in un labrum pompeiano (1843-44) di Paul Delaroche e Il mercato dei fiori (1868) di Lawrence Alma-Tadema esprimono al meglio questa tendenza.

Le Corbusier, affreschi interni di una casa a Pompei, 1911
Le Corbusier, affreschi interni di una casa a Pompei, 1911

Ma alla fine del XIX secolo avviene qualcosa di singolare. Gli archeologi riportano alla luce i corpi imprigionati nella cenere degli abitanti di Pompei. Giuseppe Fiorelli, primo direttore degli scavi dell’Italia unita, avrà un’ambizione divina: liberare le ossa e restituire i morti all’umanità. Da allora, lo sguardo dell’Arte su Pompei si farà meno «lascivo» e più compassionevole, come nella composizione di figure tra buio e luce creata da Mario Sironi nel 1935 o nell’onirica fuga di Due donne che corrono lungo la spiaggia, scaturita dall’estro di Picasso nel 1922. Arturo Martini attingerà direttamente dai calchi in gesso di Fiorelli per scolpire Il Bevitore (1933-36) in una pietra a tratti ferita, mentre Giorgio de Chirico renderà omaggio a Pompei con un tributo di «classico» (Gladiatori, 1935).

Pablo Picasso,
Pablo Picasso, “Due donne che corrono lungo la spiaggia”, 1922

Pompei e l’Europa. 1748-1943 si accommiata dai visitatori attraverso una galleria di foto e schizzi: alle vecchie schede della Soprintendenza che rinviano agli albori degli scavi, si affiancano i coevi carnets di Le Corbusier nella veste di esploratore d’interni pompeiani. E se il 1748 sembrava aver riconsegnato la più magnificente delle città vesuviane all’illusione della rinascita, il 1943 sarà l’anno dell’oltraggio inferto dalle bombe ai monumenti.
L’antico è anche presente
Rapiti alla morte, a cura di Massimo Osanna e Adele Lagi, è la sezione allestita nello spazio dell’Anfiteatro di Pompei, in cui per la prima volta dopo il restauro vengono presentati al pubblico 20 calchi, a partire da quelli realizzati da Fiorelli rilevando le impronte lasciate dalle vittime dell’eruzione nel materiale vulcanico. Ad accoglierli, un progetto dell’architetto Francesco Venezia pensato per ospitare – a compimento del percorso – anche la mostra La fotografia, curata da Massimo Osanna, Ernesto De Carolis e Grete Stefani.
Un contributo documentario, quest’ultimo, che dà ai visitatori l’opportunità di ripercorrere le tappe salienti di una scoperta sbalorditiva. I defunti di gesso sono stati racchiusi dentro una piramide – struttura provvisoria in legno – la quale, inserita nell’arena dell’anfiteatro, provoca, a primo impatto, una sensazione di spaesamento, come fossimo trasportati in un universo «alieno».

Tuttavia, ci dice Venezia, «la piramide non è un simbolo invasivo. È un’estrusione e, in quanto tale, la sua forma è complementare a quella del cratere dell’anfiteatro. Principio già operante nella grandiosa concezione del paesaggio dantesco della Divina Commedia». All’obiezione che l’anfiteatro era un edificio per spettacoli e non un luogo di sepoltura, Venezia ribatte che se catalogare gli edifici in base alla loro funzione antica è compito e «vezzo» degli archeologi, all’architetto interessa piuttosto il modo in cui tali monumenti si collocano nel presente e come – attraversandoli – il passato si ponga in dialogo con noi per «trasformarci». I calchi sono stati disposti, elevandoli tramite piedistalli, in una conca oscura che ricorda la matrice del terreno che fece di Fiorelli un moderno demiurgo.

L’esposizione dei corpi è stata progettata, inoltre, per permettere a chi li guarda di vedere a sua volta altri osservatori. Una condivisione circolare del pathos, una compartecipazione a un dolore antico eppure sempre nuovo. Non sono, forse, gli sventurati abitanti di Pompei gli stessi uomini schiacciati oggi da tsunami e terremoti, da bombe «intelligenti» e raid aerei, che la mediatizzazione della morte ci consegna come salme senza nome?