Martedì 13 marzo, nella sessione plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo, è stata approvata la Relazione sull’Uguaglianza di genere negli accordi commerciali dell’Unione europea. Come relatrici del testo per le Commissioni Commercio internazionale e Diritti delle donne, io e Malin Björk (entrambe del gruppo GUE/NGL) abbiamo inteso affermare un punto di vista femminista (dunque trasversale a tutte le politiche) anche sulla politica commerciale europea, ponendo la necessità di una radicale inversione di rotta, nella convinzione che da un punto di vista femminista si possa oggi con maggiore forza immaginare una proposta di giustizia sociale per tutte e per tutti: anteponendo la autodeterminazione di donne, uomini, popoli alla logica del profitto, della deregolamentazione che si è fatta regola, del neoliberismo che si è fatto Super-stato nello spazio europeo.

NELL’UE che ancora stenta a ratificare e ad attuare la Convenzione di Istanbul, molto spesso i diritti umani e la libertà delle donne vengono ridotti a orpelli retorici funzionali allo stesso tempo alla affermazione della logica della deregolamentazione e della competizione attraverso gli accordi commerciali e a nascondere come le stesse politiche commerciali producano un aumento delle disuguaglianze (anche fra donne e uomini) dentro e fuori lo spazio europeo, imponendo de facto un depotenziamento dei diritti umani, dei diritti del lavoro e degli standard ambientali considerati come mere barriere non tariffarie da abbattere.

ALL’INIZIO di questa legislatura, uno studio confermava il carattere «gender blind» della politica commerciale europea. E la più grande difficoltà superata con l’approvazione di questo rapporto è stata nel rendere sempre più vincolanti le clausole che impongono il rispetto di quei diritti umani fondamentali che sono i diritti delle donne. Il rapporto prevede, ad esempio, la necessità di inserire un capitolo sulle questioni di genere in ogni trattato commerciale tra UE e Stati terzi, sulla scia del mandato che il Parlamento ha dato nella rinegoziazione dell’accordo Ue-Cile, e allo stesso tempo uno prospettiva «gender sensitive» in ogni fase negoziale (incluse valutazioni di impatto ex ante ed ex post); che i servizi pubblici che garantiscono diritti fondamentali (in primo luogo, il diritto all’acqua, ai servizi sociali, all’educazione, alla formazione, alla salute, inclusa quella sessuale e riproduttiva) siano sottratti alla logica della privatizzazione.

LE MOBILITAZIONI e le campagne portate avanti in questi anni da reti come la Stop-ttip Italia hanno reso evidente il sempre maggiore impatto delle politiche commerciali sulla vita delle persone, sotto molteplici aspetti: dalla salute alimentare alla produzione agroalimentare, fino alla vera e propria erosione dei processi democratici rappresentata dal sistema di corti arbitrali a tutela esclusiva degli investitori.
Questioni nodali, di cui è difficile trovare traccia nei dibattiti televisivi della scorsa campagna elettorale. Sarebbe interessante, ad esempio, conoscere le intenzioni dei gruppi parlamentari che si insedieranno tra pochi giorni in merito alla ratifica del Ceta (l’accordo di commercio Ue-Canada) da parte dell’Italia.
In realtà, è difficile nominare la distanza tra il dibattito politico mainstream verso le elezioni politiche del 4 marzo e la potenza politica del movimento femminista mondiale Non una di meno che si è manifestata ancora una volta con lo sciopero politico (dal lavoro produttivo e riproduttivo e dalle ruolizzazioni di genere) dello scorso 8 marzo, a partire dalla convocazione argentina.

Basti pensare all’abisso tra la proposta di reddito del M5s e la proposta di reddito di autodeterminazione presente nel Piano femminista contro la violenza maschile e di genere elaborato in Italia da Non una di meno: da un lato, un sistema di workfare, che non solo non intacca, ma rafforza il ricatto dello sfruttamento, incentrato sul «cittadino» (neutro, of course); dall’altro, un reddito incondizionato e di base, che da una posizione femminista, pensa a uno strumento di autodeterminazione per tutte e tutti, avvalendosi di quella capacità «genealogica» delle donne di reclamare reddito per ogni forma di lavoro non riconosciuto e non pagato, a partire dal lavoro di cura.

IL POSIZIONAMENTO femminista nel presente si afferma come quello più radicalmente in grado di leggere le attuali e sempre più pervasive forme del dominio neoliberista e di estrazione di profitto da ogni dimensione della vita, di evidenziare la contemporaneità fra processi di femminilizzazione del lavoro di tutt@ e la riproduzione di disuguaglianze di genere nel processo produttivo e nella distribuzione del reddito. La prospettiva intersezionale, la nominazione degli intrecci materiali e simbolici fra il dominio di sesso, di classe, di razza rendono oggi il movimento femminista l’antidoto più potente al realismo capitalista (Fisher). Parafrasando un altro volume di cui (giustamente) si dibatte molto, c’è sempre più bisogno di femminismo per inventare il futuro, e di certo, anche per reinventare lo spazio europeo.

*(Parlamentare europea, gruppo GUE/NGL)