Il titolo originale della Ragazza d’autunno è «Dilda» che letteralmente in russo vuol dire spilungona. Si tratta d’una parola infantile con la quale i bulli irridono una ragazza troppo grande e quindi impacciata nei propri movimenti. Il termine s’adatta come un guanto al personaggio principale del film, Iya, che sorpassa tutti d’una spanna. E che ha l’aria sempre tra le nuvole. Resta un titolo curioso per un film serissimo nel tema, nel momento storico che descrive e nel tono scelto per farlo: il male assoluto e l’impossibilità d’esser felici, dentro la cornice dell’immediato dopoguerra sovietico, dipinto con i colori non d’una vittoria della patria ma d’una sconfitta dell’umanità in genere.

Eppure, proprio quel titolo infantile in fondo esprime il film stesso. Kantemir Balagov aveva stupito tutti con Tesnota, accolto a Cannes come l’opera prima di un regista già maturo, già adulto, pienamente cosciente dei suoi mezzi. Era un film che si voleva terra terra, epurato da ogni discorso, diretto al cuore delle cose, rigorosamente incollato alla propria eroina. Nella Spilungona questo vuol dire mettersi alla sua altezza, e fare un film, se non di dimensioni, certo di statura inabituale.

È UN FILM peraltro molto raccolto. Qualche scorcio di strada, una casa in cui convivono diverse famiglie, e soprattutto l’ospedale dove lavora Iya formano l’insieme della scenografia dentro cui Balagov fa scorrere un flusso di racconti di vita sovietica che si dispiegano intorno alla storia principale pur apparendo separati da essa, come pezzi di un puzzle osservati uno per uno: la storia del soldato paralizzato, quella dell’aborto di Marcha, la morte del bambino, Iya e Marcha insieme a due figli d’apparatchik…

È certo questa curiosa coralità un lascito del libro che il film adatta: La guerra non ha un volto di donna, dell’autrice bielorussa e premio Nobel della letteratura Svetlana Aleksievic. È noto il suo metodo, che consiste nel registrare un coro di testimonianze e in seguito a dar loro una forma letteraria. Metodo che è stato molto criticato per delle ragioni affatto comprensibili. Ma che ha regalato al cinema due oggetti preziosi come la miniserie Hbo Chernobyl (sostanzialmente tratta dalle storie di Preghiera per Chernobyl) e questo film. Due oggetti diversissimi. Eppure, a ben vedere non è difficile sovrapporre l’ospedale di Leningrado dove lavora Iya nel 1945 a quello moscovita dove Ulana Khomyuk (personaggio appunto composito che sta per «comunità scientifica») interroga i tecnici della centrale esplosa il 26 aprile 1986 – come se la prima tragedia fosse una sorta di sostrato ontologico della seconda. Sovrapposizione che è anche il cristallizzarsi del tempo nel lento dileguare del mondo in cenere.

CAMMINANDO accanto ad Iya, viene in mente la fine di Stalker, quel lungo carrello sopra il pelo d’acqua in cui traspaiono oggetti di vita quotidiana, immersi nel liquido del tempo, sospesi nella fanghiglia polverosa del suo dileguare. Ognuno di questi oggetti racconta un momento, un atto, un segno incancellabile di un’esistenza individuale. Kantemir Balagov entra in quel fiume. O meglio, lo osserva inventando una propria camminata, quella della spilungona, molto diversa da quella, metafisica, dello stalker. Non che Balagov rinunci all’ambizione spirituale dei suoi maestri. Ma la sua immersione nel sottosuolo dell’esistenza appartiene solo a lui e alla sua spilungona, che resta con la testa appena sopra la massa, e con il corpo tragicamente a disposizione del mondo. Siamo agli antipodi del grande affresco, della visione d’insieme. Nel film accadono cose assurde, tragiche e banalissime. La spilungona le vive tutte con un sospiro, o meglio con un bisbiglio, dal quale però risuona fortissimo ora un singhiozzo ora un grido ora un silenzio.

È fuor di dubbio un film d’inaudita potenza, al quale è impossibile restare indifferenti. Mette la guerra e la condizione della donna in essa sotto una luce assolutamente nuova. È anche un film fondamentalmente revisionista. Nella sua filosofia radicalmente pessimista, si schiera in un filone filosofico reazionario, perché privo di ogni via d’emancipazione. Ma sa anche uscire da sé, e farsi carico d’un punto di vista con il quale non sapevamo forse nemmeno di doverci confrontare.