Il «giovane Ahmed» del titolo originale del film dei fratelli Dardenne – L’età giovane – è un adolescente di oggi, in qualche parte del Belgio, un fratello, una sorella, la mamma rimasta da sola, il corpo goffo nell’incertezza dell’età, il viso nascosto dagli occhiali – quasi una metafora – che porta sin da ragazzino. In nemmeno un mese dalla play station è passato alla preghiera, via i manifesti dalla stanza, sguardi di odio alla sorella in canottiera, critiche alla madre, e alla maestra che lo segue da quando è piccolo a cui ora non vuole nemmeno più dare la mano nel saluto. È impuro dice.

LA COLPA è dell’imam grida la mamma, è il religioso che ha reso agli occhi del ragazzo il cugino morto «martire» un eroe, e un modello da seguire. Anche il fratello va in moschea, ma preferisce le partire di calcio, per Ahmed invece è «tutto o niente», e quando l’insegnante pure lei musulmana ma contro ogni integralismo inizia dei corsi di arabo moderno il ragazzo decide di ucciderla. Non era ciò che l’imam gli aveva chiesto il giorno che l’aveva definita apostata?

Non c’è «cronaca» però in questa storia anche se in Belgio, dove vivono i due registi, la materia è sensibile, lì è stato arrestato uno degli assassini del Bataclan, in quel quartiere di Molenbeek divenuto uno degli «archetipi» della radicalizzazione islamica nel Paese e in Europa. Il loro cinema non è mai stato esplicativo, nel corpo a corpo con la realtà preferisce interrogarla, mettendosi – e mettendo anche lo spettatore – in una posizione «scomoda», che non si appoggia sulle certezze, sul manicheismo tra buoni/cattivi, sulla ricerca di un’empatia coi loro personaggi – a differenza di quanto accade nei film di altri registi – ma predilige le sfumature, la zona dell’ambiguità in cui si dissolvono le rappresentazioni comuni.

INTORNO a Ahmed il paesaggio è anonimo, nessuno scorcio di periferie «difficili», nessuna motivazione sociologica per la sua scelta: qualche traccia, forse, oltre all’irrequietezza adolescenziale, l’assenza della figura paterna, l’imam che ne è un po’ il sostituto con le sue prediche che fanno leva sui sentimenti fragili dei più giovani ma rapido a dileguarsi dalle proprie responsabilità di fronte al gesto del ragazzo.
«Quando abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura non avevamo ancora chiaro che avremmo dato vita a un personaggio così fermo nelle sue decisioni, che non ci offriva alcun appiglio per farlo uscire dalla sua follia omicida», dicono i Dardenne – che col film hanno vinto allo scorso Festival di Cannes il premio per la miglior regia. Un’ossessione dunque. La stessa che avvolge tutti i protagonisti dei loro film, che li conduce a compiere errori tragici, ma anche a volte a riprendere in mano il loro destino in un intreccio tra spinte esterne e tensioni interiori inestricabile.

La figura di Ahmed porta il «metodo» dei Dardenne all’estremo perché non offre appigli; chiuso nel fantasma del martirio, rimprovera la madre di non essere una buona musulmana, nel centro di detenzione minorile dove viene mandato dopo il tentato omicidio respinge le proposte degli educatori insieme alla loro buona volontà. La gentilezza lo irrita, le categorie del mondo sono il puro e l’impuro, il resto non esiste. Come sottrarlo alla sua determinazione? Le crepe sono la spinta della sua età, la voglia di farsi prendere dalla vita nonostante tutto: un incontro, la ragazzina della fattoria in cui viene mandato a lavorare nel programma «rieducativo», la possibilità di qualcosa ancora da scoprire. Ma può bastare a rompere quel muro di fronte al quale, anche i due registi sembrano disarmati, che pone domande al loro metodo dialettico, e dunque anche al loro cinema?
In questa mancanza di certezze c’è la forza del film, che segue una geometria netta ed essenziale nell’illuminare il nostro mondo, l’Europa,su un fenomeno come la radicalizzazione religiosa; le spiegazioni messe in campo – società economia marginalizzazione – non sembrano, almeno secondo i Dardenne, essere sufficienti, se non a offrire la possibilità (rassicurante) di incasellarlo in qualche modo. Qui invece le certezze vengono meno e nel percorso «obbligato» del giovane Ahmed – accanto al quale nessuno può stare, è interessante la reazione nel pubblico che per lo più lo detesta – si impone un sentimento di impotenza.