È la regola del pendolo. Finché la paura di morire e ammalarsi dominava i ragionamenti dell’opinione pubblica gli infermieri erano eroi, si piangeva per le cassiere e i postini che morivano essendosi beccati il Covid-19 sul lavoro. E ci si indignava per i rider e gli addetti della logistica e di Amazon che si contagiavano perché sprovvisti di mascherine. Ora che è tutto un «Aprire subito perché sennò si muore di fame», di chi si ammala non frega più niente a nessuno e anche le grandi multinazionali gridano allo scandalo e chiedono uno «scudo penale» contro il rischio di essere chiamate a rispondere di contagi-infortuni sul lavoro dovuti al mancato rispetto delle prescrizioni di legge.

L’obiettivo di Confindustria però è più alto e neanche tanto celato: sfruttare il vento contrario alla burocratizzazione per ridiscutere tutto il Testo unico sulla sicurezza sul lavoro, avendo mani libere per non poter mai essere responsabile di infortuni e morti.

Da ormai una settimana i giornali vicini agli industriali portano avanti una martellante campagna, naturalmente subito colta dai loro amici di Italia Viva: «Gli imprenditori hanno già abbastanza problemi, non possono rischiare di essere trascinati in tribunale», dichiarava ieri il capogruppo renziano al senato Davide Faraone.

Solo il manifesto, citando il giudice di Corte di cassazione Roberto Riverso, ha spiegato come si trattasse di una bufala totale: il decreto Cura Italia ha previsto infatti una depenalizzazione della responsabilità penale dei datori di lavoro ed anzi li ha esentati dall’aumento dei premi Inail previsti nel caso di aumento di infortuni nella propria azienda.

Ieri lo ha confermato – sebbene con una nota degna di circonlocuzione – la stessa Inail. Se qualche giorno fa il suo direttore generale Giuseppe Lucibello si era detto favorevole allo scudo penale, l’istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro ha dovuto precisare che «i criteri applicati per l’erogazione delle prestazioni assicurative ai lavoratori che hanno contratto il virus sono totalmente diversi da quelli previsti in sede penale e civile, dove è sempre necessario dimostrare dolo o colpa per il mancato rispetto delle norme a tutela di salute e sicurezza».

«La nota Inail è molto chiara – commenta il giudice Riverso – e riprende una base del diritto: dallo stesso fatto – il contagio per Covid-19 – possono ricadere conseguenze diverse dal punto di vista assicurativo, civile e penale. L’accordare al lavoratore copertura Inail non significa che ci sia responsabilità penale del datore di lavoro». La campagna di stampa per lo scudo penale alle imprese si basa infatti sull’articolo 42 della legge di conversione del Cura Italia (legge 18/2020) che «ha previsto come la contrazione del virus dia luogo ad infortunio piuttosto che a malattia – continua Riverso – . Ma ciò è stabilito solo ai fini della sua protezione indennitaria nell’ambito del sistema dell’assicurazione obbligatoria Inail e non si occupa della responsabilità datoriale. Per perseguire penalmente un’infezione da coronavirus contratta sul lavoro – osserva Riverso – non c’è alcuna necessità di verificare se essa dia luogo ad una malattia piuttosto che ad un infortunio professionale. La lamentazione di parte datoriale tende a ottenere un più generale salvacondotto rispetto alla eventuale sottoposizione alle normali azioni civile e penali. Una richiesta di protezione che è totalmente ingiustificata dal momento che già i principi in vigore e la loro prassi applicativa non consentono di condannare nessun imprenditore per omicidio o lesioni colpose quando egli rispetta le regole precauzionali. Il fronte datoriale agita questioni strumentali, inesistenti, che nascondono la realtà e che mirano ad ottenere un privilegio incostituzionale», conclude Riverso.

Anche la Cgil commenta la nota Inail che «riafferma i corretti profili di responsabilità nel contesto dell’epidemia, già presenti e ben consolidati nel nostro ordinamento e nel testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Comprendiamo che la nota sia stata determinata da campagne a volte strumentali, ma è stato opportuno farla», sottolinea la segretaria confederale Rossana Dettori. La Cgil si dice invece «sorpresa» dalla dichiarazioni del presidente dell’Inail Franco Bettoni – «per riconoscere l’infortunio si richiede documentazione molto precisa dell’occasione e modalità del contagio» – e chiede «all’Inail di essere coerente con il meccanismo di presunzione semplice con un riconoscimento pressoché automatico annunciato appena dopo il Cura Italia».