Copertura totale, assoluta. Da Londra, Enrico Letta si schiera senza lasciare alcun margine di dubbio con il suo vice. Dalla relazione di Pansa, «emerge la totale estraneità del ministro Alfano». Pertanto «non vedo ombre sul governo», e chi intendesse evocarle si ricordi che «la stabilità politica è essenziale per la crescita».

Parole pesantissime che piovono come bombe su un Pd impegnato a cercare di scongiurare la trappola del voto di fiducia spingendo Alfano a sacrificare la delega di ministro dell’Interno per restare solo vicepremier. Un’operazione in grande stile, allestita non solo dai dissidenti fissi, come Laura Puppato, Pippo Civati e Felice Casson, ma dallo stesso establishment, i renziani, i dalemani, i veltroniani, i bersaniani. Tutti insomma.

Per ore le dichiarazioni si susseguono, tutte molto simili se non proprio uguali: la difesa di Alfano in aula è stata debole e poco convincente, troppi i buchi e i punti ancora oscuri, per il bene del governo Alfano dovrebbe fare un passo indietro. Lo chiede Casson, ma lo ribadiscono anche Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria e dalemiano da sempre. Matteo Orfini, il vicecapogruppo al Senato Lepri, in un coro che diventa sempre più fitto. Rincarano i senatori renziani, che mettono sul tavolo la richiesta formale di votare per la sfiducia, domani mattina al senato.

Sarà solo quello il momento della verità. Alla camera, infatti, non se ne farà niente: sarebbe un esercizio inutile. Ma la speranza del Pd è che anche l’appuntamento di domani si riveli superfluo, per avvenute dimissioni del ministro. In caso contrario si troverebbero di fronte al peggiore dei dilemmi: da una parte la fine del governo, dall’altra la stessa dei berlusconiani quando finsero di credere alla barzelletta Ruby-Mubarak.

Nel pomeriggio scendono in campo i pezzi da 90, prima Rosi Bindi, poi Anna Finocchiaro, e la sua è un’uscita particolarmente pesante perché arriva poco prima dell’inizio della segreteria pd e soprattutto perché quando esorta Alfano a «un gesto di responsabilità istituzionale» lo fa in pieno accordo con il reggente Epifani.

Il messaggio rivolto al Pdl è trasparente: nulla garantisce che i democratici non decidano oggi di appoggiare la sfiducia e a quel punto fermare la valanga diventerebbe impossibile.

Il Pdl si trova così alle prese con un dilemma speculare a quello degli strani alleati, perché se c’è una cosa che Berlusconi in questo momento proprio non vuole è proprio la crisi. In mattinata l’avvicendamento tra Alfano e Schifani pare cosa fatta, poi naufraga anche perché Angelino lo considera inaccettabile, ma a metà pomeriggio la partita pareva ancora aperta e la remissione delle deleghe possibile. In nottata l’ultima parola sarà detta in un vertice con Berlusconi. La parola d’ordine a Palazzo Grazioli è «nessuna exit strategy», cioè nessuna remissione delle deleghe di Alfano.

Anche perché il pronunciamento di Letta cambia tutto. Ora per i senatori piddini schierarsi a favore della sfiducia non vuol più dire attaccare Alfano ma direttamente il premier. Resta però da capire come e perché Letta sia arrivato a una simile scelta. In parte gli ha aperto la strada una telefonata con Renzi, al quale avrebbe promesso di non sbarrare la strada per la candidatura a palazzo Chigi in cambio del via libera alla permanenza di Alfano al Viminale.. «Con Matteo ci parliamo sempre, nessun problema», cinguetta il premier. «Matteo» in effetti, nella sua newsletter giura di non voler certo far cadere Letta. Però aggiunge che se il Pd strumentalizza una faccenda simile per regolare i conti con lui d’è da vergognarsene e ricorda che già una volta il premier ha spinto un ministro, la Idem, alle dimissioni.

Forse, dunque, dietro la mossa di Letta, più che la tregua con Renzi, c’è la regia del Colle. L’uscita del premier sembra propedeutica a un pronunciamento altrettanto forte di Giorgio Napolitano. Il presidente parlerà oggi alle 12: guarda caso un’ora prima dell’assemblea dei senatori piddini.