Juan Goytisolo voleva essere seppellito in Marocco, il paese dove aveva scelto di risiedere (e dove possedeva una grande casa nella Medina di Marrakech, vicinissima alla piazza Jâmi al-fanâ, che aveva contribuito a far dichiarare Patrimonio dell’Umanità), e si raccomandava che non riportassero il suo corpo a Barcellona, la sua città natale, per rinchiuderlo nella tomba di famiglia, una pretenziosa riproduzione in miniatura del Duomo di Milano, che per lui era il simbolo di «tutto l’orrore della classe borghese e sfruttatrice» rifiutata e combattuta sin da ragazzo.

DESIDERAVA, INOLTRE, che la sua sepoltura fosse estranea ai simboli di qualsiasi fede religiosa, ed è per questo che uno tra i più grandi e singolari scrittori spagnoli contemporanei, morto domenica scorsa a Marrakech, riposa ora a Larache, nel vecchio cimitero laico dove nel 1986 venne sepolto Jean Genet, che per lui era stato un punto di riferimento «più morale che letterario».
I due si erano conosciuti durante l’esilio francese dello scrittore, nato nel 1931 ed espatriato nel ’56 per stabilirsi a Parigi (in Spagna le sue opere erano proibite, tanto che fino al 1975 vennero pubblicate da editori messicani), e a farli incontrare era stata Monique Lange, che lavorava per l’editore Gallimard, del quale Goytisolo era autorevole consulente per l’area ispanica.

AMICI FINO ALLA FINE, i due scrittori, e uniti fino alla fine anche Goytisolo e Monique, romanziera squisita e intellettuale di raro acume scomparsa nel 1996, che per trent’anni gli fu accanto e lo sposò nel 1978: un matrimonio saldo quanto insolito, visto che negli anni ’60 Juan decise di dichiarare la propria omosessualità. Un’ammissione che per lui rappresentò un momento di rottura, accompagnato non solo da soggiorni in Nordafrica sempre più lunghi (si fermerà definitivamente a Marrakech solo dopo la morte di Monique), ma anche da una brusca svolta che ne rifondò l’opera, a partire dalla stesura del romanzo Señas de identidad, pubblicato nel 1966.

Fino ad allora Goytisolo era collocabile nella corrente del «realismo sociale» spagnolo, come testimoniano i romanzi e i racconti scritti tra il ’54 e il ’62, e poi in qualche modo rinnegati («politicamente inefficaci, le nostre opere erano, oltretutto, letterariamente mediocri; credendo di fare letteratura politica non facevamo né una cosa né l’altra», scrisse nel saggio Literatura y eutanasia), anche se l’indignazione per l’ingiustizia e l’ impegno politico non vennero mai meno, facendone un testimone prezioso delle guerre in Bosnia e in Cecenia, un avversario acerrimo del nazionalismo e del neoliberismo, un critico severo delle ortodossie religiose, dell’ipocrisia omofobica e di un mondo «intrappolato tra consumismo e terrore».

È da Señas de identidad in poi che tutto cambia e Goytisolo rivendica, oltre che un’identità sessuale apertamente manifestata, anche una libertà letteraria proiettata verso la ricerca costante del nuovo («senza idea di novità non c’è autentica opera») e sciolta dai lacci della tradizione. La differenza tra il periodo del realismo e quello successivo è enorme, e la confermano romanzi mirabili, provocatori, eterodossi come Reivindicación del conde don Julián, Juan sin Tierra, Makbara, Paisajes después de la batalla, La saga de los Marx, Telón de boca, El exiliado de aquí y de allá, in cui si consolida via via una sorta di «sradicamento» ideologico e avanguardista, mentre saltano i confini tra poesia e prosa e si afferma uno straordinario intreccio di tempi e spazi differenti, di richiami all’oralità (molti dei suoi romanzi, diceva Goytisolo, erano fatti per essere letti ad alta voce), di mescolanza tra «colto» e «popolare», di invenzioni linguistiche, di allusioni a un canone che non è quello consacrato dalle storie della letteratura spagnola, ma viene da lui esteso (nei testi narrativi come nell’ ampia attività saggistica) ad autori eterodossi, a pensatori emarginati eppure fondamentali, lontani da quella tradizione conservatrice, nazionalista e cattolica culminata nel trionfo del franchismo.

INFINITAMENTE CURIOSO e conoscitore profondo del mondo arabo, di cui parlava perfettamente la lingua – e perfetta era anche la sua conoscenza del dialetto di Marrakech – proponeva all’Occidente un diverso rapporto con le tante facce dell’islam, fondato sulla conoscenza e il dialogo, non esitava a dichiarare il suo rigetto del wahabismo (si rifiutò sempre, infatti, di visitare l’Arabia Saudita), espresso in maniera definitiva in un suo illuminante articolo apparso nel 2003 sulla Revista de Occidente; e, definendo il multiculturalismo un’illusione, optava piuttosto per un fruttuoso meticciato, un incontro fusionale tra culture, che gli appariva necessario e inevitabile.

SCRITTORE dalle molte patrie, che si dichiarava «di nazionalità cervantina» in omaggio a un Cervantes riletto non in quanto classico, ma come autore eversivo e per sempre moderno, un tempo Goytisolo è stato ampiamente proposto in Italia da editori come Einaudi e Feltrinelli.
Nelle nostre librerie, però, oggi c’è ben poco di suo (a pubblicare qualcosa, in anni recenti, sono stati piccoli editori come L’Ancora del Mediterraneo e Cargo): un’altra conferma di quanto avesse ragione, quando sosteneva che la censura «prima era politica, ma quella di oggi, quella commerciale, è ancora più terribile, perché gli editori pensano che se un’opera non venderà più di duemila copie non vale la pena di pubblicarla. E con questo criterio si rischia di perdere metà della letteratura migliore». Migliore o addirittura straordinaria, com’è la sua.