Bob Dylan non finisce mai. Per quanto siano temibili le risorse di chi ad ogni data del «neverending tour» del cantautore documenta su registrazione pirata scaletta, curiosità, stato emotivo del bardo di Duluth, sino a ricostruire una paradossale mappa borghesiana «uno a uno», in cui la realtà di Dylan è ogni concerto che ha tenuto, l’autore di Like a Rolling Stone riesce ad essere sempre un passo oltre. Lo è stato quando ha ricevuto la notizia del premio Nobel per la letteratura nel 2016, specificando che l’avrebbe ritirato «alla prima occasione possibile», lo è stato in ogni occasione. «I’m Not There», Io non sono quello che appare là, dice il titolo di un film sulla sua vita di una decina di anni fa,e di una sua canzone. Dylan non è là perché c’è già stato.

Nessun collezionista di memorabilia dylaniane potrà mai rivaleggiare con Dylan stesso, che sembra lasciar cadere le sue registrazioni e i suoi concerti come foglie secche buone solo per fare decoroso humus culturale, e invece, Pico della Mirandola della popular music, non dimentica nulla, non trascura nulla, tutto è presente.

La sua bootleg series è uno scrigno di meraviglie inedite o di rado ascoltate che veleggia tra le decadi dylaniane con urtante rilassatezza: l’ultima volta erano chicche dal periodo da «cristiano rinato» di Dylan, sinceramente nulla di speciale, musicalmente parlando. Esce ora però un doppio cd dal titolo al contempo semplice e misterioso, Live 1962 – 1966, Rare Performances from the Copyright Sessions, ed è festa grande per i dylaniani, si apre un altro scrigno. O meglio: torna ad aprirsi. Perché i ventinove brani qui contenuti, e dipanati tra i tempi ruggenti del Greenwich Village di Blowin’ In The Wind, e la ruvida, febbricitante elettricità del ’66 in realtà a qualche specialista erano già noti.

Facevano parte della famosa (famigerata, per alcuni, per costo e rarità) Copyright Collection che nel 2012 la Columbia Sony pubblicò in edizione limitatissima per quanto riguarda il ’62 dylaniano, appena cento copie, nel 2013 e 2014 per gli anni ’63 e ’64, ed infine con il monumentale ma pressoché ingestibile cofanetto The Cutting Edge sul ’65 e ’66 della «svolta elettrica». Non era finita: fece seguito un altro cofanetto che documentava i concerti del ’65 stigmatizzati dai puristi folk. Bella idea, allora, e davvero «popolare», rendere accessibile una miniera di gemme rigorosamente dal vivo che coglie davvero il meglio del meglio di un quinquennio febbrile per Dylan , per creatività ed esiti. Si coglie tutto lo sforzo del songwriter di evadere dalla gabbia dorata del «folk» per approdare in un’altra terra, incognita e eccitante: quella del rock d’autore che stava squassando le fondamenta della popular music, raccontando un’altra America. Anche se ascoltare il radente controcanto di Joan Baez al Dylan acustico in When The Ship Comes In, 20 agosto del ’63 a Washington, varrebbe da solo il doppio cd.