Lo screening distratto
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Lo screening distratto

Medicina Per un errore informatico, circa 450mila donne inglesi dal 2009 ad oggi non si sono sottoposte alla mammografia, test per la dignosi precoce del tumore al seno. Diverse di loro si sono ammalate e morte, a causa del ritardo decennale, come ha dichiarato pubblicamente il ministro della sanità Jeremy Hunt. Oltre ai benefici dei controlli preventivi, vanno comunque considerati anche i danni collaterali da sovradiagnosi
Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 6 maggio 2018

Il 2 maggio, il ministro della sanità inglese Jeremy Hunt ha dichiarato pubblicamente che un numero di donne compreso tra 135 e 270 potrebbe aver perso la vita per un banale errore informatico. Colpa di una falla nel software che fornisce i nominativi delle donne di età compresa tra i 50 e i 70 da sottoporre periodicamente alla mammografia per la diagnosi precoce del cancro al seno, una pratica sanitaria denominata «screening».

A causa dell’errore, tra il 2009 e oggi circa 450mila donne non sono state esaminate. A scoprirlo sono stati i ricercatori dell’università di Oxford che stanno studiando vantaggi e conseguenze di anticipare l’inizio dello screening al quarantesettesimo compleanno, cioè tre anni prima rispetto a oggi. Ora la sanità inglese intende correre ai ripari, offrendo una corsia preferenziale per i test sulle 309mila donne non controllate ancora in vita e aprendo un’inchiesta sull’accaduto.

LA DICHIARAZIONE DI HUNT ha creato un notevole panico nell’opinione pubblica. I media britannici si sono gettati sulla notizia, perché 270 vittime per un errore di un computer rappresenterebbero una vera strage di stato. Il numero verde approntato dal ministero della sanità per dare informazioni sul mancato test ha ricevuto cinquemila telefonate nella mattinata successiva all’annuncio. C’è chi chiede la testa di Hunt, chiacchierato anche per questioni di elusione fiscale, mentre gli studi legali già si sfregano le mani in vista della prevedibile pioggia di denunce.

Lo screening mammografico è un test effettuato a tappeto in un gran numero di paesi (occidentali), praticamente in tutti quelli dell’Unione Europea, in una fascia d’età variabile. In Italia, ad esempio le aziende sanitarie locali inviano lettere ogni due anni a tutte le donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni. Ma in alcune regioni (la sanità è organizzata su base regionale) si inizia a 45 anni e in altre si continua fino a 74.

I benefici dello screening appaiono evidenti, almeno a prima vista: scoprire un tumore precocemente e attraverso un programma gratuito e universale sembra esattamente ciò che dovrebbe fare un sistema sanitario pubblico ed efficiente. Secondo i trial clinici più affidabili, sottoporsi allo screening riduce la mortalità legata al tumore alla mammella del 19%. Ed è sulla base di queste percentuali che il ministro ha fornito le statistiche sulle vittime presunte del’errore. Invece, secondo un numero crescente di esperti, i benefici dello screening sono compensati dagli effetti collaterali e sarebbe tempo di abbandonare la mammografia a tappeto. Per David Spiegelhalter, statistico dell’università di Cambridge che ha scritto un commento alle parole di Hunt sulla rivista di divulgazione New Scientist, le cifre citate dal ministro sono «fuorvianti».

I motivi sono spiegati anche in un’analisi apparsa sull’ultimo numero dell’autorevole Journal of American Medical Association (la rivista della società statunitense di medicina) e firmata da Nancy L. Keating e Lydia E. Pace dell’università di Harvard (Usa), sulla base di una mole di dati piuttosto solida.

IL PRINCIPALE DANNO collaterale si chiama «sovradiagnosi». La mammografia genera una percentuale notevole di cosiddetti «falsi positivi». Con questa espressione si indicano i casi in cui la malattia viene diagnosticata e vengono avviati esami e terapie invasive, debilitanti e pericolose a loro volta (biopsie, radioterapie e chemioterapie), anche se non sarebbero necessarie.

È UN CASO FREQUENTE sia in donne giovani che in quelle di età più avanzata. Nelle prime, spesso grazie alla mammografia periodica vengono individuati tumori di piccole dimensioni che potrebbero essere destinati a rimanere asintomatici (ma questo raramente si può stabilire in anticipo).

Nelle donne più anziane, invece, c’è il rischio di prescrivere terapie invasive, nonostante ci sia una discreta chance che, anche senza tali cure, il tumore non porti alla morte. Per non contare le ricadute psicologiche indotte dallo stress che implica una diagnosi di tumore al seno. Nel complesso, secondo Keating e Pace le diagnosi «dannose» sono circa il 19% del totale: la stessa percentuale del calo di mortalità indotto dallo screening di massa. A cifre analoghe giungono molte altre analisi, a partire dalle analisi della Cochrane, il network di ricercatori no-profit che si dedica a misurare l’efficacia delle pratiche mediche. Secondo Salvo Di Grazia in arte «Medbunker», medico e cacciatore di bufale popolare sul web e in libreria, «spariamo con un cannone a un possibile moscerino.

QUESTO NON TOGLIE che la mammografia in quanto mezzo diagnostico sia stata una grande invenzione. Dovremmo però imparare a usarla meglio». Le percentuali di vite salvate e trattamenti inutili non possono essere messe sullo stesso piano per confermare in blocco o cestinare lo screening. Gli effetti collaterali di una terapia anti-cancro hanno un impatto molto diverso secondo i casi e una donna salvata dalla terapia li giudicherà più sopportabili di una su cui si riveleranno superflui. Dunque, secondo Keating e Pace la mammografia potrebbe aumentare la sua efficacia se, invece di essere effettuata a tappeto, fosse «personalizzata», cioè consigliata sulla base della situazione personale, e con un consenso informato sul rapporto tra rischi e benefici da parte della paziente. Per arrivarci, è necessario conoscere la storia familiare della paziente, o effettuare test genetici, perché una parte dei tumori al seno sono causati da mutazioni del Dna. Il numero di mammografie diminuirebbe, così come i costi a carico del sistema sanitario.

NONOSTANTE LA CONSOLIDATA mole di dati in materia i protocolli sanitari sono rimasti per lo più invariati un po’ in tutto il mondo, e i medici continuano a consigliare mammografie regolari. Le spiegazioni di questa inerzia, secondo Keating e Pace, sono le stesse spesso citate quando si parla dei costi della sanità. Ad esempio, la medicina difensiva, cioè l’abuso di prestazioni diagnostiche allo scopo di evitare denunce da parte dei pazienti, o le pressioni dell’industria farmaceutica, interessata ad estendere il mercato dei propri farmaci attraverso la moltiplicazione dei malati. Qualcosa di analogo sta succedendo anche tra gli uomini, con il test mirato alla diagnosi precoce del tumore alla prostata. Anche in quel caso, secondo molte ricerche i benefici di uno screening sistematico dopo una certa età sembrano inferiori ai rischi di interventi invasivi ma non necessari.
Tuttavia, anche la personalizzazione della diagnosi pone degli interrogativi. Implica una relazione tra medico e paziente fondata sull’ascolto e sulla condivisione delle informazioni, una fatica maggiore del semplice invio di una lettera prestampata. Tempo e ascolto sono risorse scarse e dunque richiedono investimenti economici, che compenserebbero i risparmi sulle mammografie. Nei sistemi non universalistici basati sulle assicurazioni private, le disparità di trattamento potrebbero allargarsi.

Come spesso avviene, non si tratta di una scelta esclusivamente tecnica, basata sulla maggiore o minore efficacia di uno strumento di diagnosi. Scegliere una strategia o un’altra implica anche ragionamenti di ordine sociale, economico e politico, che l’austerity e l’aziendalismo hanno espulso da tempo dalla nostra sanità. Anche un errore di un software non può essere relegato a un semplice incidente tecnico, soprattutto se viene scoperto dopo quasi dieci anni di colpevole distrazione sul corpo delle donne.

SCHEDA

Gráinne Flannelly, direttrice di Cervical Check Ireland, programma di screening preventivo contro il cancro al collo dell’utero, si è dimessa dopo uno scandalo che sta investendo il sistema sanitario dell’isola. Lo scandalo nasce dalla testimonianza di Vickie Phelan, malata terminale che ha scoperto che i risultati di un test del 2014 non le sono stati rivelati fino al 2017, quando ormai era troppo tardi. Sono poi stati scoperti altri 200 casi in cui il risultato negativo del test non era stato comunicato. Diciassette tra le donne vittime dell’errore, nel frattempo, sono morte. Sotto accusa è la superficialità con cui la sanità irlandese affronta la salute delle donne, proprio mentre il paese si appresta a votare il 25 maggio al referendum che potrebbe legalizzare l’aborto.

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