Adam Smith è il più citato e il meno letto tra i maestri dell’economia. Che lo si legga, o meno, il filosofo scozzese resta uno dei più fraintesi, insieme a Karl Marx che di Smith ha criticato l’idea del mercato e la sua idea ispiratrice: l’individualismo etico. Tre sono i miti che hanno trasfigurato l’eredità di un pensatore illuminista che credeva nel valore dell’esperienza e non negli apriori della morale, nella sperimentazione delle passioni contro il congelamento della vita nelle verità eterne.

Smith sarebbe stato un sostenitore della capacità di autoregolazione del mercato, il teorico della famosa «mano invisibile»: la teologia economica che governa i più saldi convincimenti dell’austerità come del neo-liberismo in versione hard. È stato detto che Smith è lo scatenato sostenitore del capitalismo come motore di un’espansione economica infinita. Ci si è messo anche chi ha visto in lui il teorico della generalizzazione della divisione del lavoro, analizzata nel primo capitolo di un capolavoro, sempre citato ma raramente letto fino in fondo, come la Ricchezza delle nazioni. Il modello della produzione, e quindi di società, da auspicare sarebbe quello della fabbrica degli spilli. In realtà, Smith non è stato niente di tutto questo. Il suo liberalismo è alternativo al Washington Consensus o all’austerità. Come ha scritto Giovanni Arrighi in Adam Smith a Pechino (Feltrinelli), il filosofo scozzese sarebbe d’accordo con Polanyi che trovava queste ricette utopiche e dogmatiche.

Per apprezzare oggi le risorse, e i limiti dell’autore della Teoria dei sentimenti morali o delle Lezioni sulla giurisprudenza, è utile leggere l’agile monografia di Adelino Zanini, recentemente ripubblicata da Liberilibri: Adam Smith. Morale, jurisprudence, economia politica ( pp.311, euro 18).

Smith non è l’autore neoliberista che predica lo «Stato minimo», gli spiriti animali del capitale, l’individualismo egoistico dell’Homo oeconomicus, ma è un filosofo che presuppone l’esistenza di uno Stato forte – il Legislator – capace di amministrare e all’occorrenza ricreare le condizioni necessarie per il funzionamento dello stesso mercato. Il mercato è lo spazio dove si esprime l’inclinazione naturale dello scambio commerciale, ed è anche il motore della divisione del lavoro. Per Zanini, filosofo politico e interprete raffinato sia di Marx che di Schumpeter, il protagonista del mondo emerso con la rivoluzione borghese e, soprattutto, con quella industriale, è il prudent man, l’uomo prudente capace di auto-controllo, paziente nel lavoro, risoluto nel pericolo, fermo nell’angustia, capace di una condotta temperante nell’esercizio della professione. Valori non estranei alla Riforma protestante e alle sue derivazioni.

Questo soggetto non è solo l’antitesi al neoliberismo, per intenderci quello descritto da Martin Scorsese nel film Il lupo di Wall Street, ma è l’opposto di quello della rivoluzione francese, ritratto come un fanatico che applica violentemente un progetto ideale alla realtà. L’uomo prudente è l’eredità aristotelica, e ancora prima di quella stoica, rivista nella trattatistica cinquecentesca. Due secoli dopo, a seguito della distruzione del mondo medioevale e dell’avvento del capitalismo moderno, l’uomo cortigiano – espressione della medietà e della prudenza – si misura con il mondo sconfinato dei commerci e della produzione della ricchezza materiale e finanziaria. E continua ad applicare le virtù antiche in una cornice nuova: quella delle professioni, e delle competenze, dei meriti e della capacità personali.

Adam Smith spiega oggi l’origine dell’ossessione «centrista» delle postdemocrazie occidentali. Tutte coltivano l’orizzonte della «medietà», il riferimento è il «ceto medio». È obbligatorio mostrare moderazione non solo nell’espressione verbale, ma nel progetto politico che si candida a governare lo Stato, i mercati, le maggioranze. Questo meccanismo è stato spiegato nella Ricchezza delle Nazioni, che Zanini consiglia di leggere fino in fondo. Qui Smith stabilisce un legame tra le virtù morali del prudent man e quelle politiche esercitate dal legislator – lo Stato – nel gestire gli eccessi della speculazione. Sulla base di tali virtù lo Stato è obbligato a governare il mercato, non solo nella difesa dalle minacce interne o esterne, controllando la moneta e il sistema creditizio (per Smith la Bce di Draghi è una bestemmia); l’istruzione di massa e gli effetti negativi della divisione del lavoro sulla popolazione.

Per il filosofo scozzese, lo Stato capace di imporre il rispetto di queste regole è meritevole di obbedienza. Il suo limite emerge tuttavia nel collegamento tra morale ed economia. Smith ha preteso che lo Stato, come l’economia, possano essere governati eticamente. Lo crede ancora oggi Angela Merkel, un prodotto dell’Ordoliberismo tedesco – descritto da Michel Foucault ne La nascita della biopolitica – che usa la morale come strumento contundente e ipocrita per governare la crisi europea. Lo crede il social-liberista Hollande e, con qualche successo in più al momento, Renzi in Italia. Pretese che Marx ha dimostrato essere infondate, ma che rappresentano ancora la speranza delle classi dominanti di addomesticare l’austerità, riportando il Capitale sui binari del «progresso».