Sarantis Thanopulos: «La tua critica alla tragedia, nel solco tracciato da Platone, è pungente e concisa. Denunci il suo uso, allora come oggi, da parte del potere come canone estetico del pensiero. Tuttavia nel suo reale configurarsi la tragedia si è collocata in modo destabilizzante, eccentrico rispetto al contesto politico-religioso in cui la polis, nelle sue mire educative, ordinatrici nei confronti dei cittadini, aveva voluto recintarla. Così che ciò a cui gli spettatori assistevano era uno scontro, mai dichiarato, esplicitato, tra la politica di addomesticamento delle tensioni dell’apparato culturale di un imperialismo “democratico” e la sua radicale messa in discussione da chi doveva realizzarla. La concatenazione lineare degli eventi inquietanti sulla scena del teatro, la prevedibilità dell’esito finale (alleata di ogni autoritarismo), veniva narrata, rappresentata in modo che la sua elaborazione da parte degli spettatori fosse del tutto irriducibile a schemi mentali rassicuranti, predefiniti».

Monica Ferrando: «È così, tanto è vero che ancora ne parliamo e certo l’universalizzazione psicologica ad opera di Freud ne ha ulteriormente confermato lo statuto di modello artistico e introspettivo. Perché? Perché la sua sostanza era il problema per eccellenza della convivenza umana così come si era organizzata secondo la polis: l’esclusione/inclusione sacrificale. Invece di vivere il paradosso etico-religioso del sacrificio, come per esempio nell’orfismo o in Arcadia, valendosi di un’immaginazione mitopoietica (pensiamo a Orfeo o a Licaone), presente peraltro anche nella tragedia, lo si trasferisce nella finzione di una liturgia civica, orchestrando un’autorappresentazione della polis funzionale alla sua autoconservazione universalizzante, dove il sacrificio diviene la condizione indispensabile, anche inconscia, dell’imputabilità dell’azione a un soggetto (eroico) che diverrà il soggetto universale dell’occidente».

Sarantis Thanopulos: «L’agire sulla scena tragica, a cui l’occidente ha associato l’assunzione eroica di un destino sacrificale, è imitazione di un’azione autoreferenziale, irresponsabile che porta il protagonista a distruggere la sua posizione nel mondo. Essa è il prodotto di un grave errore, preterintenzionale, di giudizio (amartia) dettato dalla svalutazione dell’importanza dell’altro. Il sacrificio a cui conduce non libera la polis. Mette la sua costituzione democratica di fronte al limite potenzialmente catastrofico della logica sacrificale: la politica di un’inclusione escludente, chiusa all’alterità e alla migrazione che espelle il desiderio nei confronti dello straniero, considerandolo estraneo al senso di appartenenza. L’imitazione dell’azione autoreferenziale nello spazio tragico, mentre da una parte la riproduce, dall’altra ne spezza l’inesorabilità e apre i cittadini seduti sui gradini del teatro, togliendoli dalla passività, al riconoscimento della perdita e alla sua elaborazione trasformativa. Disattiva il dispositivo dell’inclusione elettiva/esclusiva e rimette in gioco la parità come condizione della convivenza umana».

Monica Ferrando: «Questo forse nelle intenzioni – politiche – dei poeti. Di fatto, però, alla politica possibile come scaturigine dell’esercizio della poesia non è andata così. E oggi, in cui lo spettacolo ha intaccato tutto, persino la pittura storica, la sua forma è imposta con la forza ‘legittimante’ delle istituzioni. Dinnanzi alla tragedia politica reale (la condanna dell’innocente) è un’incessante e generale dialogo politico a essere necessario, al di là di ogni, ahimé calcolato, effetto artistico. La separazione in attori e spettatori è un’espropriazione sistematica di quella poesia che, in varia misura, da sempre abita gli esseri umani come potenza politica della lingua».