Il più grande nella storia della Slovacchia e uno dei più grandi nel settore privato nella regione. Così viene definito lo sciopero che da martedì 20 giugno sta paralizzando lo stabilimento VolksWagen a Bratislava.

A incrociare le braccia è stata la maggioranza dei dodici mila operai impiegati nella fabbrica a Bratislava, che a ritmo pieno sforna più di mille macchine al giorno. A essere bloccate sono le linee di produzione dei veicoli di gamma medio-alta VolksWagen Touareq e Audi Q7. «I danni alla produzione sono rilevanti» ha ammesso il presidente del CdA di VolksWagen Slovakia Ralph Sacht.

Allo scontro tra la direzione e i sindacati si è arrivati dopo una serie di trattative per il rinnovo del contratto aziendale con posizioni delle due parti molto lontane. I sindacati hanno chiesto un aumento del 16% delle tariffe salariali, mentre la direzione era disposta a un aumento di circa il 9%. Le posizioni tra le due parti si sono avvicinate giovedì, quando i sindacati hanno abbassato le loro pretese chiedendo un aumento di 13,9%. Allo stesso tempo l’azienda ha continuato a offrire il 9%, a cui ha però aggiunto due pagamenti una tantum. Secondo Sacht prendendo in conto i due pagamenti, l’offerta dell’azienda si avvicina molto alle richieste sindacali. «Ma gli operai non chiedono pagamenti una tantum, chiedono il rialzo delle tariffe. Sappiamo infatti, che gli aumenti delle tariffe danno garanzie agli operai anche per il futuro» ha commentato la proposta il leader dei sindacati in VolksWagen Slovakia Zoroslav Smolinsky. Anche per questo le attività di sciopero continueranno per tutto il week-end. «E lunedì ci ripresenteremo in forze ai cancelli» promette Smolinsky.

Le richieste dei sindacati in VolksWagen Slovakia sono superiori alla crescita dei salari nell’industria slovacca. Secondo le ultime statistiche i salari in tutto il manifatturiero slovacco sono cresciuti negli ultimi dodici mesi di 6,8 percento a poco più di mille euro lordi. Secondo la direzione dello stabilimento, il salario medio in VolksWagen Bratislava sarebbe quasi il doppio, 1800 euro al mese lordi. In Slovacchia come in Repubblica Ceca l’industria ha un forte orientamento sul settore automotive, La forte concentrazione della produzione tra Repubblica Ceca, Slovacchia e una parte della Polonia sta cominciando a segnare problemi di crescita. Le aziende infatti cercano con sempre maggiore difficoltà i lavoratori specializzati e con profili tecnici. Così i salari crescono a un ritmo sostenuto anche senza rivendicazioni così forti come a Bratislava.

Nel settore dell’automotive in Slovacchia e Repubblica Ceca si sta aprendo una nuova stagione sindacale. Numerosi sindacalisti infatti abbandonano le grandi confederazioni “uniche” per formare i loro sindacati di base negli stabilimenti. E’ questo il caso anche di Zoroslav Smolinsky e dei suoi Sindacati moderni, che dopo numerose polemiche ha lasciato in ottobre 2016 la confederazione metalmeccanica Kovo. In pochi mesi Smolinsky ha saputo attrarre nel suo sindacato di base più della metà dei dipendenti dello stabilimento di Bratislava, mentre la Kovo ha oggi una presenza residuale. Secondo i critici, i sindacati tradizionali non sanno attirare nelle loro fila i giovani e sono troppo consensuali nelle rivendicazioni. «Ma le nostre richieste prendono sempre in considerazione la condizione finanziaria, in cui versa l’azienda» si difende dalle accuse il presidente della Confederazione Sindacale Slovacca, Jozef Kollar.

I livelli salariali sono un tema sempre più discusso nell’Europa centrale. Tra gli operai e dipendenti cresce il sentimento che le imprese occidentali paghino poco una forza lavoro con prestazioni, che ormai sono in alcuni settori simili se non superiori a quelli dei Paesi occidentali. C’è un forte sentimento che le imprese occidentali considerino i lavoratori del centro-est Europa dei parenti poveri da pagare poco. E non si tratta solo di paghe come mostra l’affaire sugli doppi standard alimentari con cibi di minor qualità venduti a est del Danubio. Un senso di forte disincanto verso l’Occidente passa non solo tramite la questione delle quote dei rifugiati ma anche (o soprattutto) tramite i portafogli e le borse della spesa.