Pier Luigi Bersani, per una volta, non aveva arrotondato gli spigoli sul jobs act (governo di «marziani», aveva detto, ha«intenzioni surreali»). Renzi fiuta l’occasione e spara. Dopo la bastonata alla Cgil, stavolta toccano all’ex segretario e famigli della sinistra interna. Il premier invia un’email agli iscritti del Pd : «A me hanno insegnato che essere di sinistra significa combattere un’ingiustizia, non conservarla», «Anche nel nostro partito c’è chi vuole cogliere la palla al balzo per tornare agli scontri ideologici e magari riportare il Pd del 25%. Noi no. Noi siamo qui per cambiare l’Italia e non accetteremo mai di fare le foglie di fico alla vecchia guardia che a volte ritorna. O almeno ci prova».

Una zampata, veleno purissimo, quella citazione della percentuale con cui Bersani «non vinse» le elezioni. «Se c’è qualcuno che cerca lo scontro ideologico è Renzi. Esca dagli slogan e chiarisca le sue intenzioni», scatta a difesa la nuova leva bersaniana Alfredo D’Attorre. Più avanti a sinistra Vendola registra un videomessaggio: «Matteo, così realizzi il sogno della destra».
Non è accusa che smuova i precordi del premier. La strada dello scontro è già tracciata. E anche il finale si intravede: niente di buono per le minoranze Pd – e per i lavoratori a vario titolo. Pippo Civati chiede un referendum interno: «Consulti subito circoli, iscritti ed elettori». Renzi, in partenza per gli States, non è interessato. Il 29 settembre – e quindi mentre la discussione sulla legge delega sarà al senato – presenterà il jobs act alla direzione del partito. Con il solito rito sacrificale della diretta streaming: quello in cui ai documenti non si accettano emendamenti e la minoranza viene asfaltata e vincolata al voto per disciplina.

Ma poi andrà tutto liscio alle camere? Per capirlo, le date sono fondamentali. Martedì 24 alle 13 scade il termine per gli emendamenti. Quella mattina i senatori Pd si riuniscono per decidere l’atteggiamento da prendere in aula. Chiunque può presentare modifiche, ma le senatrici Cecilia Guerra e Rita Ghedini sono incaricate di concentrasi sui «principali» punti critici: entensione dei servizi per l’impiego, discrezionalità dei demansionamenti, tutele universali, applicazione dei voucher. E, tutt’altro che ultima, la patata bollente della modifica all’art.18. Ancora uno sguardo al calendario. Lunedì 29 c’è la direzione. C’è chi chiede di anticiparla per evitare che al Nazareno si discuta su un testo già approvato in senato. Ma Renzi è negli Usa fino al 26. Certo è che il governo ha chiesto che il primo sì entro l’8 ottobre, per portare la riforma al vertice Ue di Milano sul lavoro. «C’è tutto il tempo per fare cambiamenti seri», spiega Cecilia Guerra, già sottosegretaria del governo Monti e Letta. Intanto però il Pd è nel marasma. «Non ignoro il conflitto ma cerco di ricondurlo ad argomenti concreti», si schermisce. «Del resto gli obiettivi della legge sono giusti e condivisi».

Su altri tavoli però le cose potrebbero cambiare: Renzi fa la faccia cattiva, ma al senato i numeri della maggioranza sono risicati. E senza un patto interno c’è il rischio che per il sì serva il soccorso di Forza Italia. Apparentemente il premier tira dritto. Eppure c’è chi assicura che un canale di trattativa si apre. Un viottolo stretto su un terreno minato. Ma obbligatorio: approvare la legge con i voti berlusconiani per Renzi non è un male minore.