Come volevasi dimostrare. Purtroppo. I nuovi decreti sul jobs act non onorano le promesse che Renzi fatte al parlamento, e in particolare a quella parte della sinistra dem che ha mediato fino alla resa pur di non votare no al provvedimento. Ricitando un atto di fede sul fatto che i futuri decreti avrebbero migliorato il testo. Per questo al momento del voto sul provvedimento, lo scorso 25 novembre, la minoranza Pd si era spaccata in due: pontieri allineati da una parte, irriducibili dall’altra. Di là il capogruppo alla camera Speranza, l’ex segretario Cgil Epifani, l’ex ministro del lavoro Cesare Damiano che si erano adoperati fino all’ultimo per emendare il testo renziano. Di qua i 29 che erano poi usciti dall’aula giudicando le modifiche ottenute quasi nulle: tra gli altri Stefano Fassina, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi, l’ex ministro Massimo Bray, Francesco Boccia, Alfredo D’Attorre, Barbara Pollastrini. In mezzo l’ex segretario Bersani aveva espresso un sì «sofferente e per disciplina».

Negli uni e negli altri ieri si è fatta sentire la delusione e la rabbia. Per i ’pontieri’ la figuraccia è mondiale: ’ci avevano messo la faccia’, per questo erano stati costretti a disertare le manifestazioni della Cgil. Innanzitutto Renzi non cancella la norma che rende possibili i licenziamenti collettivi, nonostante le richieste contenute nei pareri delle commissioni lavoro di Camera e Senato. «Siamo di fronte a una scelta politica sbagliata e non rispettosa del dibattito parlamentare», tuona Damiano. La diversificazione delle tutele tra vecchi e nuovi assunti, «sarà fonte di innumerevoli contenziosi». Damiano prova ancora q vedere il bicchiere mezzo pieno, ma è un’impresa disperata: va bene la netta distinzione tra lavoro autonomo e subordinato ma, dice, «è contraddittoria la coesistenza del lavoro accessorio con quello a chiamata». Soprattutto il jobs act diminuisce le tutele in caso di licenziamento «ma le risorse adeguate per gli ammortizzatori sociali per il momento non ci sono e creeranno forti problemi di tutela nei casi crescenti di disoccupazione. Con il rischio di avere protezioni inferiori a quelle attualmente esistenti».

È quello che hanno sostenuto i sindacati dall’inizio. «Solo un ottimismo spinto alla deformazione della realtà può vedere in questi decreti un passo in avanti significativo nella lotta alla precarietà», attacca D’Attorre. «Colpisce la misura assolutamente limitata e parziale della riduzione di forme contrattuali precarie rispetto alle ambizioni iniziali di una riforma che avrebbe dovuto addirittura introdurre il contratto unico di inserimento». Ancora più netto il giudizio dell’ex viceministro Fassina: «Straordinaria operazione propagandistica del governo sul lavoro. Il diritto del lavoro torna agli anni 50. Oggi è il giorno atteso da anni… dalla Troika». I contratti precari, ragiona, «rimangono sostanzialmente tutti: la sbandierata rottamazione dei co.co.co è avvenuta da anni, mentre i co.co.pro di fatto restano. Ammortizzatori sociali e l’indennità di maternità non vengono estese». Insomma i decreti del jobs act «dimostrano come l’unico vero obiettivo dell’intervento fosse cancellare la possibilità di reintegro per i licenziamenti senza motivo». Sui licenziamenti collettivi, continua, viene «ignorato il parlamento», sui licenziamenti disciplinari «è ignorato l’odg approvato dalla direzione nazionale del Pd». Conclusione: «Non è una riforma: è una regressione». Ora la speranza sarebbe una legge di iniziativa popolare «per un’innovazione progressiva della regolazione del lavoro». Ma per questo i tempi sono biblici, e incerti anche grazie alla riforma costituzionale appena votata dalla maggioranza.