È davvero un futuro «reloaded» quello del cinema? Gli Holy Motors delle vecchie macchine da presa, e dei loro proiettori sono destinati a rimanere per sempre nei garage, il digitale ha «divorato» la «vecchia» pellicola, e non è solo questione di nostalgia o di sentimentalismi un po’ retorici, è la sostanza dell’immaginario (e la sostanza del cinema) che muta per sempre. E mentre da qualche parte lontano di qui, su una piccola isola in Grecia (guarda caso …) si è celebrato il Funeral Party irriverente e gioioso della pellicola insieme a quei registi che oggi resistono utilizzando con ostinazione i formati ormai «alieni», sul Lido il cinema in sé sembra essere l’oggetto ossessivamente ricorrente nelle immagini che danno voce all’angoscia sottile di un cambiamento necessario ma incerto: il vecchio cineclub di cui parla Sion Sono (consigliamo la preziosa monografia Il signore del caos. Sono Sion a cura di Dario Tomasi e Francesco Picollo, Caratteri mobili) i frammenti sparsi nei lavori dei 70 registi chiamati a festeggiare la Mostra con il loro Future Reloaded. Usare un formato «alieno» nella grana o nella testa diventa allora una dichiarazione di resistenza rivoluzionaria all’industria, ai cliché, alla produzione di realtà.

All’inizio di The Canyons, punta alta della Mostra presentato fuori concorso, Paul Schrader (presente anche come Presidente della Giuria internazionale della sezione Orizzonti) ci mostra le sale cinematografiche ormai in abbandono a Los Angeles. Se gli studi implodono (Spielberg) e le cose migliori vengono dalla tv via cavo (Friedkin) quei macchinari e fotogrammi di un’altra epoca raccontano una malinconia violenta. Eppure The Canyons (data di uscita italiana ancora incerta) non è un film ripiegato su se stesso, infatti Schrader ha voluto alla direzione della fotografia John De Fazio anche artista e film maker che si muove nel crossover, nella contaminazione di arti creando per spesso distruggere le sue opere di cui rimane solo la documentazione. Impastando universi labili e emozionali e la sua Los Angeles è una struggente composizione di baratri emozionali.

Film sul guardare e sul vedere, sull’ossessione del controllo che è quella del regista, naturalmente, ma anche di una contemporaneità in cui tutto è visibile, dall’intimità – può essere la foto del figlietto che ha detto «mamma» – fino al filmino della scopata di gruppo, la molestia e la suggestione erotica immateriale ma incomparabile con quella reale in un flusso che annichilisce, questo noir ai tempi dei social network ci interroga sul sentimento del nostro presente. Il cinema non è solo un effetto collaterale. Eccoci allora in una Los Angeles paesaggio cinematografico leggendario, dalla Sunset Plaza a Venice alle colline di Hollywood, con le sue ville enormi e i set di intrighi esasperati dalla rete. È qui che che si muovono i protagonisti di The Canyons, Christian produttore di film porno e Tara, la sua ragazza. Lui è ossessionato dal controllo, e come spiega allo psicanalista, imperturbabile Gus Van Sant, ama dirigere e non essere attore, per la stessa ragione detesta le sedute. È sempre lui a governare i fantasmi sessuali della coppia, filmando serate di scambisti, voyeur che godono mentre guardano lui e Tara scopare, lei che sta con altri … Non può però sopportare i fuoricampo, ciò che sfugge all’obiettivo del telefonino divenuto telecamera a alta precisione. La regia deve essere solo sua, e difatti va fuori di testa appena Tara forza le cose facendogli fare un pompino da uno degli ospiti.

Per la stessa ragione quando scopre che lei lo tradisce con il ragazzotto aspirante attore appena assunto e di lei vecchia fiamma, si vendica con crudele determinazione. Un conto è vederla stare con gli altri, col suo beneplacito, un conto è che lei abbia una vita propria che sfugge allo smart phone. Non siamo più nell’epoca dell’amore libero, ai tempi dei social la libertà è triplo salto ma solo sintetica, e Christian con le sue camicie dentro ai jeans perfettamente stirati di questo paradosso è l’incarnazione.
Brett Easton Ellis che ha scritto la sceneggiatura, ha iniettato nei personaggi l’American Psycho del suo romanzo e forse di più, la declinazione contemporanea dei ragazzetti sul bordo della piscina negli anni 80 di Less than Zero, stessa «morte dentro» schizzata oggi in rete nel voyeurismo della trasgressione globale. Il gioco sottile di Christian è scandalizzare e non essere scandalizzato, tradire ma non essere traditi, dirigere ma non mettersi in scena scrutando (e usando abilmente) tutti quei giovani sfiniti da mille provini e dal sesso in cerca di carriera.

Invece Schrader i suoi fantasmi li esibisce tutti in un «funeral party» del postmoderno frantumato nella serialità: De Palma, omaggiato, e Hitchcock, le scene sotto la doccia, gli inseguimenti e la triangolazione di ombre noir della modella tossica inconsapevole dark lady. La commedia sofisticata del chiacchiericcio e dell’apparenza del Four Seasons, hotel a cinque stelle, Dubai, divertimento di società. Le luci rosse come i film che stanno girando (ma quali sono più hard quelli reali o quelli sui set?), l’horror emozionale. Li dissemina nella luce cinematografica della sua Ellei, sui corpi degli attori, James Deen, il divo porno felice, essenza di un maschile etero al 100% che è ormai solo immagine. E Lindsay Lohan (anche produttrice), la star più ricercata dalla polizia inarrestabile regista anche lei di sé stessa nella messinscena della sua autodistruzione – Christian non ce la farà mai a distruggermi dice all’ex amante di lui che insegna yoga, troppa meditazione finirà male.

È un grandissimo film The Canyons, un film politico che non cerca gli ammiccamenti alla cinefilia di moda, e forse per questo è stato fischiato, ma il piacere di una «vera» trasgressione nel gesto d’amore per il grande schermo. Consapevole di un nuovo inizio dell’occhio che è ancora un caos misterioso.