Il tragico Seicento inglese, una guerra civile durata un secolo con vincitori e vinti in alternanza, investì le generazioni successive con il compito di far crescere nuove prospettive, iniziare una stagione culturale che si chiamerà «neoclassica» o «umanista» o più semplicemente «L’età di Pope» e, dopo la sua scomparsa nel 1744, «L’età di Johnson». Una fresca testimonianza ci viene da uno speciale reporter, il giovane Voltaire (Lettres sur les Anglais, 1733, di cui si è scritto in queste pagine). La piccola isola «è diventata a causa del commercio abbastanza potente da inviare, nel 1723, tre flotte contemporaneamente in tre estremità del mondo; una davanti a Gibilterra, conquistata e conservata con le armi, l’altra a Portobelo per impedire al re di Spagna di godere dei tesori dell’India e la terza nel Mar Baltico per impedire alle potenze nordiche di combattere».
In quel clima di pace «augustea», di nuove ricchezze (il commercio marino, le colonie, la schiavitù, la finanza, il parlamentarismo…) e nuovi desideri, fiorì una estetica più raffinata. Dryden, il grande traduttore di Virgilio, morto nel 1700, aveva ammonito: «In generale, il compito di un poeta è simile a quello di uno scrupoloso armiere o di un orologiaio: il ferro o l’argento non è suo (la materia letteraria); ma è la minima parte di quello che ne costituisce il valore: il prezzo sta interamente nel lavoro umano» (l’arte del Moderno). Alludeva agli abili «meccanici» puritani che frequentavano il Gresham College di Londra, ottimi artefici se non artisti. Una lingua diversa rispetto al passato shakespeariano e carolino si era affermata nelle commedie di fine Seicento: asciutta, agile, funzionale quanto la buona conversazione in società. I commediografi di Carlo II – Congreve, Etherege, Farquhar i più famosi – leggevano Molière, conversavano di politica, letteratura e scandali vari nei club tra pochi amici scelti, nelle popolari coffee houses, chiamate anche penny universities, numerosissime a Londra. Maestri nello stile epistolare per cui si diceva tutto sotto la copertura di un elegante badinage, comprensibile solo al destinatario. Regole ben note raccomandavano rapidità e sorpresa: «Andate veloci, lasciate indovinare», «È sublime un’espressione che lasci nella mente più da pensare di quanto è detto».

Wit in salotto e nella coffee-house
Nel Settecento, secolo mercantile per eccellenza, è il contratto invece che la spada a rendere valida la parola, e le donne di queste commedie lo sanno bene. Il contratto garantiva l’unione coniugale, disconoscendo il sesso fuori del matrimonio, e permetteva la parità sociale del parvenu che abilmente avesse fatto brillare la sua «felicità linguistica», sapesse giocare il suo wit in salotto o nella coffee-house o in parlamento. Ma se libere battitrici mettevano in pericolo il matrimonio, parimenti l’uomo alla moda di Etherege, Dorimant, versione inglese e libertina di Don Giovanni, è minacciato dal suo calzolaio, l’aggressivo «meccanico» che tenta l’ascesa sociale, l’altro grande tabù, imitando il linguaggio e lo stile dell’aristocratico cliente.
La Carte du Tendre offriva una guida sul difficile terreno del sesso, mancava invece una mappa morale per districarsi nella querelle filosofica sulla natura dell’uomo, la sua condizione nell’universo, l’amor proprio e la ragione, la sua medietà nella catena degli esseri, il preteso ottimismo finale. Pope, all’apice della carriera di poeta, esperto di strategie editoriali, decise di tentare l’impresa, non in prosa ma in distici eroici così vicini all’aforisma, alla battuta sagace, al wit del brillante Dorimant e dei suoi scaltri imitatori. Nel 1733-’34 uscirono le quattro epistole dell’Essay on Man, e l’elegante riflessione filosofica in veste poetica ottenne un immediato successo; tra le numerose traduzioni, va ricordata la bodoniana del 1801 nelle cinque principali lingue europee. La traduzione francese di Hamilton, l’autore del Comte de Grammont (recensito recentemente in queste pagine) non fu però pubblicata. Saggio sull’Uomo è ora riproposto da liberilibri nella traduzione di Adelino Zanini, già uscita nel 1994, ristampata nel ’97, con testo inglese a fronte, e l’interessante introduzione «Scena etica dell’Essay on Man» (pp. XXXVI-130, € 9,00).
Anche se Pope scrive in sintonia con il pensiero di scrittori e amici quali Bolingbroke, Addison, Shaftesbury, Locke che ormai della crisi epistemologica del secolo passato riconoscevano certi effetti positivi, affiorano in controluce i radicali, scettici, giudizi cinque-secenteschi: «L’uomo non può essere se non ciò che è, né pensare che secondo la sua possibilità» (Montaigne); «Guerra intestina dell’uomo tra la ragione e le passioni. / Se avesse soltanto la ragione senza le passioni … / Ma, poiché ha l’una e le altre, non può stare senza guerra … e così è sempre diviso e in conflitto con sé medesimo» (Pascal). Il deforme, invalido Alexander Pope («Questa lunga malattia, la mia vita») li riconosce e non li smentisce nella perfetta bellezza del suo distico eroico. L’ottimismo che annuncia nel primo emistichio, poi nega, o denega, o imbonisce a gran voce, in derisione, nel secondo. Così l’uomo: «Created half to rise, and half to fall; / Great Lord of all things, yet Prey to all» («creato metà per ascendere, e metà per cadere; grande signore di tutte le cose, però preda di tutte»); «But when his own great Work is but begun, / What Reason weaves, by Passion is undone» («ma quando il suo gran lavoro comincia appena, / quel che Ragione tesse, da Passione è disfatto»). Il dottor Johnson nella sua Life of Pope si districa con qualche difficoltà con un personaggio tanto difficile quanto abile, e di sarcastica intelligenza (The Dunciad). «Il Saggio abbondava di splendide digressioni e brillanti frasi, che furono lette e ammirate con scarsa attenzione al loro scopo ultimo, i suoi fiori catturarono l’occhio che non vide quel che era celato sotto il lieto fogliame, e per un certo tempo fiorì sotto il sole dell’approvazione generale».

Delizioso «The Rape of the Lock»
A ventitré anni, Pope aveva esordito con l’ambizioso Essay on Criticism (1711), summa della poetica neoclassica sulle orme di Boileau che segnalò la presenza del polemico scrittore sulla scena letteraria. Con le Pastorals e Windsor Forest si era provato nella poesia di paesaggio, inseguendo i colori della pittura contemporanea e le cadenze del fonosimbolismo. Fu una sorpresa il suo capolavoro The Rape of the Lock del 1714, «il più arioso, il più ingegnoso, e il più delizioso di tutti i suoi componimenti», scritto negli anni felici dello Scriblerus Club, dell’amicizia con Swift, Gay, il dottor Arbuthnot, dei tories al potere, e della tanto chiacchierata regina Anne. Ma Pope era cattolico, come la sua famiglia, e non gli era permesso di frequentare Oxford, di assumere incarichi pubblici, neanche di dormire a Londra, «e si lamentava di non aver danaro per comprare libri». Si arricchì traducendo l’Iliade, l’Odissea in noiosi distici, fece una nuova (inutile) edizione dell’opera shakespeariana, lavorando di notte e bevendo caffè per il mal di testa, assoggettando editori e amici alle sue condizioni. Johnson lo disse risentito e maligno, ma non poteva capire quell’esistenza che avrebbe potuto svolgersi in maniera molto diversa, fossero accadute le cose che non accaddero. Così lo immagina John McTague, storico del pensiero controfattuale o virtuale (Things that didn’t happen: Writing, Politics and the Counterhistorical, 1678-1743, Boydell Press 2020 ). Se fosse stato più alto e senza gobba, se gli Stuart cattolici e filo-francesi fossero stati ancora al potere, e con loro il partito conservatore tory, se gli amici dello Scriblerus fossero ancora vissuti, e Lady Mary o Martha Blount lo avessero amato, cosa avrebbe scritto l’impareggiabile Pope? Un Ur-Tristram Shandy cresceva già nella solitudine delle sue notti.