Le bombe sugli ospedali sono l’ultimo scempio della guerra siriana. Non una novità della più recente escalation, era già successo. Ma la brutale violenza che si sta abbattendo sul nord della Siria, da Idlib ad Azaz ad Aleppo, è resa peggiore dall’ipocrisia che gli ruota intorno: ci si accorda su una tregua farsa, mentre bombe e missili piovono senza sosta sui civili.

Secondo l’Onu sono 4 gli ospedali colpiti e 50 i morti delle stragi di ieri. Nel primo caso target dell’attacco è stato l’ospedale di Medici Senza Frontiere a Marat Numan, cittadina della provincia di Idlib, nord ovest del paese. Otto morti accertati tra pazienti e membri dello staff, ma – fa sapere Msf – 8 medici della struttura sono ancora dispersi. Un massacro provocato da 4 razzi caduti a poca distanza l’uno dall’altro: video mostrano i soccorritori scavare tra le macerie per poi essere costretti alla fuga da altri missili. Centrato anche il National Hospital nella stessa comunità.

«Un attacco deliberato contro una struttura medica – dice il capo di Msf in Siria, Massimiliano Rebaudengo – La distruzione di questo ospedale lascia 40mila persone senza assistenza sanitaria». La clinica opera in media 140 pazienti al mese e ne visita 1.500.

Nel secondo caso ad essere colpito è stato il centro di Azaz, città al confine con la Turchia che ospita 10mila rifugiati da Aleppo. I raid hanno centrato una clinica pediatrica, un ospedale e una scuola dove avevano trovato rifugio famiglie di sfollati. «Stiamo muovendo gruppi di bambini dall’ospedale», ha detto il medico Juma Rahal mentre i colleghi portavano fuori dall’edificio danneggiato neonati nelle incubatrici. Due dei piccoli pazienti sono tra le vittime, insieme a 6 infermieri e un medico.

Stragi in cerca d’autore: ieri non era ancora chiaro chi le avesse compiute, seppure alcuni osservatori attribuivano la responsabilità al fronte Mosca-Damasco. Per l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, organizzazione anti-Assad, e il premier turco Davutoglu i missili sarebbero stati sganciati dai caccia russi. Mosca non commenta e mancano conferme certe, nel carosello della propaganda vicendevole degli anti e dei pro-Assad.

Se ad Idlib i più attivi sono i jet russi perché la provincia è per lo più controllata da al-Nusra, i dubbi maggiori ruotano intorno ad Azaz, vista l’operazione turca in corso da sabato nei pressi della città: circondata dall’esercito governativo a sud e dalle Ypg kurde a est, per Ankara è la linea rossa invalicabile.

«Se [le Ypg] si avvicineranno ad Azaz, assisteranno alla più dura reazione. Non permetteremo la caduta di Azaz. La nostra posizione è chiara: non passeranno l’Eufrate», la minaccia di Davutoglu. Non la permetterà perché da Azaz passano i rifornimenti alle opposizioni dal territorio turco, verso Aleppo.
Ed infatti ieri il governo turco ha promesso di proseguire nei raid contro le Ypg, ormai al terzo giorno consecutivo, per impedire al

Partito dell’Unione Democratica kurdo di assumere il controllo della città e quindi di spingersi ulteriormente verso ovest. Sono già 30 i combattenti kurdi e due i civili uccisi, ma la battaglia prosegue: ieri le Ypg sono avanzate nella città di Tal Rifaat, a poca distanza da Azaz, arrivando a controllare il 70% della comunità.

Il protagonismo bellico turco porta su altro piano lo scontro in corso. Damasco ha chiesto al Consiglio di Sicurezza Onu di prendere misure per fermare la campagna turca anti-kurda e ha accusato Ankara di aver dispiegato proprie truppe in territorio siriano, «un centinaio tra militari, mercenari e miliziani islamisti».

Domenica il ministro della Difesa turco, Ismet Yilmaz, ha negato l’invio di soldati e ribadito di non volerne mandare. Parole che paiono smentite dalle azioni concrete della Turchia e dell’alleato saudita: Riyadh ha annunciato domenica l’arrivo di propri caccia nella base aerea turca di Incirlik e promesso di mandare a breve truppe di terra. E ieri sono stati inaugurati 5 giorni di addestramenti congiunti delle due aviazioni nella regione turca di Konya.

L’operazione lanciata da Ankara solleva dubbi legittimi sulla coerenza della coalizione guidata dagli Usa: le Ypg kurde sono considerate da Washington alleati militari nella battaglia contro l’Isis, ma sono nel mirino dell’alleato turco, membro della Nato. O il presidente Erdogan agisce come una scheggia impazzita (forte dell’impunità garantitagli dal ruolo di cane da guardia della Ue sull’emergenza rifugiati) oppure ha il beneplacito del Patto Atlantico, interessato a destabilizzare la regione in chiave anti-russa.

Una risposta la darebbero le condanne di facciata di Stati uniti e Unione Europea che ieri, all’unisono, hanno chiesto a Erdogan di fermare i raid contro le Ypg. Deboli perché non sono seguite da atti concreti o denunce forti di una campagna che danneggia la lotta all’Isis, vessillo sbandierato dall’Occidente per mettere i piedi nella crisi siriana.

Parlare di “cessazione delle ostilità”, prevista dall’accordo di Monaco, non ha senso. Il fine settimana ha visto le accuse incrociate tra Nato e Russia, oggetto della telefonata intercorsa domenica tra il presidente Usa Obama e il russo Putin: il primo ha chiesto a Mosca di interrompere i raid contro le opposizioni legittime, il secondo ha ribadito di proseguire con il sostegno ad Assad. I due si sono quindi ripromessi di lavorare alla soluzione politica. Che entrambi sanno essere già morta perché contraria agli interessi dei paesi membri dei due fronti avversi.