Nelle sale affrescate alla fine del XVIII secolo della galleria del Cembalo, nuovo spazio dedicato alla fotografia aperto in un’ala di Palazzo Borghese da Paola Stacchini Cavazza e Mario Peliti, le immagini di Pentti Sammallahti (Helsinki 1950) – esposte insieme al progetto fotografico Il giardino di Alessandro Imbriaco – rappresentano un momento di pausa. Qui, altrove (fino all’8 dicembre) è la prima grande antologica italiana del fotografo scandinavo, accompagnata dall’omonimo volume a cura di John Demos in collaborazione con Mario Peliti (Peliti Associati 2012).

Tra le centocinquanta immagini scattate in oltre quarant’anni di attività (1964-2011) a predominare sono i paesaggi innevati: «Generalmente, mi piace fotografare in inverno», afferma Samallahti. Orizzonti sospesi in cui l’uomo è una presenza secondaria. Gli animali, piuttosto, sembrano entrarvi in sintonia con maggior convinzione. «Sarebbe interessante indagare il rapporto tra questa attrazione di Pentti Sammallahti per gli ultimi rifugi del pianeta e l’amorevole cura che mette nella scelta e nel taglio dell’immagine – scrive Finn Thrane nelle pagine del libro – Il fotografo finlandese sembra aver eliminato l’antica dicotomia tra forma e contenuto: la composizione è così strettamente avvolta intorno alla narrazione da diventare essa stessa elemento narrativo».

Quando lei aveva solo due anni nel 1952, morì sua nonna Hildur Augusta Larsson (nata in Svezia nel 1882). Pioniera della fotografia, nel 1905 aveva aperto il primo studio a Rovaniemi e aveva lavorato anche come reporter per il quotidiano finlandese «Kaiku». Senz’altro, una figura di riferimento….

Assolutamente sì, però non sono sic

uro di avere un vero ricordo di lei. Mio padre, infatti, mi ha detto che, in realtà, ho memoria di una foto in cui lei è seduta sul letto. Ricordo anche la lampada e sulla parete c’era una serie dei suoi paesaggi che oggi sono nella mia casa. Fotografie che rispetto e amo, scattate da mia nonna in grande formato su lastre di vetro. Lei ha fotografato molto nella Finlandia del nord ed è anche autrice, nel 1911, del primo libro – piccolo – sui paesaggi della Lapponia. Portava con sé solo tre o quattro lastre e aveva la pazienza di aspettare il momento perfetto per scattare.

Il suo lavoro, esclusivamente in bianco e nero, è caratterizzato da una valenza lirica e visionaria, in cui il silenzio è una presenza quasi tangibile. Quanto è stato determinante il paesaggio nordico, in cui lei è nato e cresciuto, nella definizione del suo immaginario?

Moltissimo, penso che i finlandesi siano un popolo silenzioso. Per centinaia di anni abbiamo vissuto nelle foreste, non nei villaggi. Le case erano molto distanti le une dalle altre. Sì, siamo proprio un popolo silenzioso. Non è affatto strano per noi vederci tra amici e non dire nulla.

Si definisce un nomade. Il viaggio ha sempre fatto parte della sua esperienza personale e professionale, da Odessa a Kalevala, Kathmandu, Solovki, Roscigno Vecchio, Marrakech, Tallin, Varanasi… Uno dei suoi più noti portfoli è «The Russian Way» (1996). Come si bilancia il suo mondo interiore con la nuova realtà che, di volta in volta, la circonda?

È una domanda troppo grande! Ad ogni modo, penso che ognuno di noi sia come cieco nella propria casa, nel senso che tutto è come appiattito, mentre quando si va in luoghi sconosciuti lo sguardo è fresco.

Ci sono luoghi in cui è tornato nel tempo?

Attualmente no. Se anche vado in un paese dove sono già stato, cambio villaggio. E quando fotografo non faccio che quello. Non parlo con la gente, provo a rimanere invisibile il più possibile. Naturalmente, quando sono in un piccolo villaggio tutti sanno che sono là. (Ride). Ma solo quando fa buio entro in quella realtà, per cercare un posto dove dormire e mangiare. Non mi interessa passare il tempo nelle case a bere vodka o tè.

Le piace fotografare d’inverno: perché?

Per prima cosa, mi piace fotografare d’inverno per via della luce. Ci son

o molti riflessi e quando si stampa non c’è il problema di contrasti e mancanza di particolari, perché i riflessi sulla neve illuminano tutto.

L’insegnamento della fotografia è stata a lungo un’attività parallela, prima presso l’Istituto d’Arte Lahti e, successivamente, alla University of Art and Design di Helsinki dove ha insegnato tecnica fotografica. L’aspetto tecnico è certamente importante, ma c’è spazio anche per l’imprevisto?

Assolutamente sì… L’incidente – la fortuna – ha una parte importante. Quando si fotografa si annusa, come fanno i cani, il momento giusto. Tutte le immagini che ho scattato e che mi piacciono, sono il risultato della buona fortuna. Non progetto il mio lavoro fotografico, semplicemente vado, cammino e guardo. Colleziono fotografie e, quando ne ho raccolte abbastanza, faccio un libro.

Quante immagini ci sono nel suo archivio?

Penso di avere circa ottantamila negativi, che non è molto se si pensa che ci sono fotogiornalisti che ne hanno milioni. Mi considero una specie di artigiano. Mio padre era orefice. Ricordo che per tutta la sua vita non ha fatto altro che lavorare con qualcosa di piccolo. Per me, in un certo senso, è uguale: fotografo per avere qualcosa da realizzare nella camera oscura.

Cosa la affascina della camera oscura?

Certamente il buio, l’odore ma anche il lavoro in sé con la sua routine che mi permette di non dover pensare sempre. Posso ascoltare la musica mentre sviluppo una fotografia. Naturalmente, quando stampo devo essere concentrato, seguire i tempi del processo. Mi piace, però, quella la routine.

Per alcuni fotografi stare in camera oscura è un momento quasi di meditazione…

Sì, ha qualcosa di magico vedere l’immagine appena sviluppata. È un momento fantastico, ma può essere anche una delusione.

Nella descrizione della natura, lei tributa un’attenzione particolare agli animali. In particolare vediamo cani, ma anche scimmie, mucche, piccioni, anatre, gatti, cavalli, rane, pecore, foche, che sembrano riflettere sentimenti e stati d’animo umani, arrivando ad incarnare immagini primordiali…

Innanzitutto, penso che il paesaggio sia sempre più interessante quando succede qualcosa. Mi piacerebbe che ci fosse una storia racchiusa in ogni fotografia, ma è anche vero che una foto deve funzionare di per sé. L’ideale è quando ci sono entrambe. Quanto agli animali, mi piace fotografarli perché sono pazienti. Se, poi, dai una salsiccia a un cane, diventerà tuo amico per tutta la vita. Gli animali non chiedono, come la gente, cosa stai facendo e perché stai fotografando… In tasca, ho sempre del cibo loro, semi per gli uccelli, salsicce, sardine.

Il libro accompagna da tempo la sua produzione: c’è la convinzione che l’autore sia responsabile dell’intero processo creativo editoriale, scatto, impaginazione, stampa. Cosa è cambiato da quando ha lanciato la serie degli «Opus», nel 1979, ad oggi?

Tanto… Oggi è molto più facile fare una pubblicazione, ma in un altro senso è anche più difficile, perché la quantità è immensa. Fare un portfolio con l’ink jet, poi, ha una qualità superiore rispetto alla stampa negli anni ’70. Ho trascorso anni per imparare a controllare la curva delle tonalità nella riproduzione, spendendo tre anni del mio stipendio per comprare il macchinario di controllo. Dietro Photoshop c’è un gruppo di tecnici assai bravi. Basta toccare un tasto e si può controllare la forma della curva delle tonalità. Ma dal punto di vista dell’espressione non è cambiato nulla.

Quando vedo le mie vecchie pubblicazioni hanno un aspetto interessante perché non sono perfette, anzi sono simpatiche proprio per questo, come lo sono le stampe ai sali d’argento.