Agosto 1972. Carlo Leidi, Franco Fortini, Aldo Natoli, tutti de il manifesto, Gianni Corbi, giornalista dell’Espresso e un gruppo di operai partono in delegazione ufficiale per la Cina.
All’inizio dell’anno vi si erano recati Nixon e Kissinger per lo storico incontro che avrebbe portato a una svolta nelle politiche cinesi e americane: gli americani promisero di andarsene da Taiwan, i cinesi si impegnarono a non tollerare una terza potenza nell’area di loro competenza, evidente messaggio diretto ai russi, caldamente invitati a tenersi alla larga dalla Cina. In mezzo, vi era la spinosissima e cruenta questione del Vietnam della quale nessuno parlò.
Anche la politica interna cinese era in grande movimento: la rivoluzione culturale era alle spalle, e tutto, o quasi, era sotto il caldo e fermo abbraccio di Mao. Quanto si sapeva al di fuori delle frontiere cinesi era perfettamente orchestrato, ma qualcosa trapelava di una crepa che correva lungo tutta la Cina. Al momento della partenza dall’Italia si era infatti saputo che Lin Piao era morto da poco in un incidente aereo mentre cercava di raggiungere la Russia. Così veniva ufficialmente raccontata la questione. Il dubbio però si insinuava sulla fine di Lian Piao e sulla Banda dei Quattro. Di fatto, proprio nell’agosto del 1972 si stava manifestando, e in modo sempre più fumante, il sobbollire irrefrenabile della reazione della destra e dell’irrigidimento di Mao stesso.
La delegazione italiana parte dunque i primi di agosto in un momento delicatissimo per la Cina sia a causa dei problemi interni che per i giochi in movimento sulla scacchiera internazionale. Molti gli interrogativi. Ancora oggi, alla lettura dei documenti, pubblicati o dattiloscritti, è percepibile la solida tensione di fronte al muro di gomma che innalzano i funzionari cinesi in risposta alle domande degli italiani, per quanto fossero rispettose e caute. E la grande domanda che serpeggia in parte della delegazione resta inespressa e senza risposta: nei brevi anni della rivoluzione culturale cos’è successo? E ora, l’incidente mortale di Lin Piao cosa significa? E il divario dei salari, così evidente tra le differenti mansioni nelle fabbriche, come può rispecchiare la rivoluzione? E perché non si può dialogare liberamente con i cinesi?
Questo lo stato di fatto del viaggio, queste le domande che i delegati pongono a se stessi e ai cinesi. La prima riunione tra italiani e cinesi avviene a Shanghai: alle domande i cinesi rispondono e litigano tra loro, anche. Ma è la prima e sola volta. Il resto del viaggio scorre via liscio e melmoso come il Fiume Giallo, prevedibile e monotono «una ricostruzione del passato prossimo tutta zucchero ottimista», secondo le parole di Franco Fortini con baluginìi di «spazi ignoti dietro l’ufficiale facciata» (Quaderni piacentini, gennaio 1973): questo e altro nei documenti dattiloscritti e a stampa di Aldo Natoli, Franco Fortini e Rossana Rossanda depositati presso la biblioteca del Craf di Spilimbergo.
Testi, riflessioni e racconti che all’epoca furono in parte pubblicati su il manifesto (Aldo Natoli – 21 settembre 1972) e sull’Espresso (Gianni Corbi – settembre 1972), sui Quaderni Piacentini da parte di Fortini. Se oggi questi articoli rivelano la mancanza di informazioni approfondite su ciò che avveniva realmente in Cina, resta invece vivo lo sgomento di fronte all’innalzarsi del muro opaco dell’ideologia a opera di tutti, operai, intellettuali, funzionari di partito, atteggiamenti difensivi che ovviamente hanno ulteriormente nutrito il dubbio: «complottò Lin Piao?», si domanda Natoli dalle pagine de il manifesto un mese dopo il viaggio.
Questi materiali documentari, interessantissimi, concorrono, necessariamente didascalici, a contestualizzare le fotografie di Carlo Leidi scattate durante il viaggio cinese ora in mostra a Udine, alla Galleria Tina Modotti dal 5 luglio al 15 settembre. Il Craf di Spilimbergo ha prodotto la rassegna in seguito al recente acquisto dell’archivio di Carlo Leidi che comprende sia le fotografie che molti documenti biografici e politici.
Carlo Leidi (1930-1998) di formazione giuridica, politicamente schierato con il Pci dopo un breve iniziale periodo nella Dc, nel 1971 aderisce al progetto de il manifesto e sarà lui il notaio che apporrà il sigillo notarile sui documenti che ne sanciscono la nascita. Reporter per diletto costruisce tuttavia un corpus di fotografie assai importante e diversificato. Leidi inizia a fotografare nel 1956 per documentare la realtà sociale e produce reportage in Mali, a Praga e in Italia, a Bergamo e in Toscana, servizi fotografici che escono su testate nazionali e straniere, come L’Europeo, Du o Fotografie, la celebre rivista praghese. Autore di libri fotografici di un certo valore estetico e storico, Leidi fotografo è ancora semisconoscuto. Questa mostra ha dunque il merito di riportare alla luce il suo impegno e lavoro.
La sua presenza in Cina, insieme a Fortini e a Natoli, è centrale nella delegazione e le sue fotografie costituiscono un segnale importante nella storia della visione italiana della Cina in quegli anni perché si oppongono, in modo pacato ma preciso, all’immagine di propaganda a toni saturi che era stata invece diffusa dai cinesi e che, negli ultimi anni, è stata spesso riproposta dalle istituzioni cinesi. La mostra di Udine è quindi interessante perché mette sul tavolo non solo le immagini scattate da Leidi, ma anche le posizioni degli intellettuali italiani nei confronti del mito cinese (molto rilevanti le riflessioni di Franco Fortini sulla censura iconoclasta delle fotografie ufficiali dove le figure di Lin Piao e della Banda dei Quattro sono vistosamente annerite). Le fotografie meritano una sosta per la loro qualità formale, oltre che per la capacità di visione non pregiudizievole e attenta alla vita delle persone.
Un testo del maggio 1977 scritto da Franco Fortini definisce le sue immagini simboliche della società cinese: raccontano sia della «noia feroce di dover recitare agli ospiti stranieri quanto prescritto da parte dei baroni e bonzi di un policlinico visitato dalla delegazione» che della «dignità limpida di cultura contadina del lavoratore dei campi o delle sue figlie, o l’altra, più amara e senza illusioni né paure dell’operaio». Occorre essere grati alle fotografie di Leidi, conclude Fortini, per la loro «sobrietà, amichevole e mai tenera», in opposizione alle immagini che cadono dall’alto del potere, e che raccontano invece di «miti compensatori».
Le immagini di Carlo Leidi dicono invece tutto «l’amore e il rispetto per il popolo cinese e la sua fatica» (dattiloscritto depositato presso il Craf, maggio 1977). Del suo lavoro in Cina, Leidi dichiarava «ho occupato quasi tutto il mio tempo in conversazioni e discussioni con i compagni cinesi…. ho fotografato quando potevo, del tutto marginalmente. Sapevo bene di non poter fare un reportage. Eppure mi rendevo conto che per capire qualcosa della Cina mi servivano anche le immagini che coglievo tra un incontro e l’altro».
Le fotografie di Carlo Leidi sono, contrariamente a quanto afferma di sé l’autore, molto acute: lo sguardo che Leidi porta sulla Cina che gli è dato vedere compone in modo compiuto fotografie eloquenti, nelle quali la ripresa è quasi documentaria, non ci fosse quello sprazzo di ironia del contrasto tra i ritratti e il contesto. Dai paesaggi in toni densi e giocati su lunghe prospettive Leidi si sposta alle riprese dal treno o dagli autobus in corsa che fissano sprazzi di vita.
Colpisce vedere quanto il quotidiano scorra del tutto simile rispetto alle immagini fotografiche degli anni Trenta, cogliendo frazioni di vita ancora immutata, ignara del terremoto urbanistico che avrebbe travolto la Cina negli anni novanta. Interessanti le immagini di interni domestici, industriali o istituzionali dove Leidi si lascia prendere la mano nel cogliere gesti e sguardi di pacata naturalezza anche nelle situazioni rituali come la danze di gruppo per celebrare Mao. Hanno una qualità rara queste fotografie: non sono mai ideologiche.