«Sono nato nel 1947 a Monte Carlo, un non luogo. Nel senso che è luogo da sogno – lirico – che esiste solo nell’immaginazione delle persone», afferma Gérald Bruneau. Del fotografo, attuale compagno di Adriana Faranda, noto per i ritratti che ha pubblicato dagli anni Settanta su testate quali Washington Post, Time Magazine, Newsweek, Le Figaro, Le Monde, Vanity Fair, è in corso alla galleria Giacomo Guidi di Roma la mostra Andy Warhol’s dust (fino al 30 agosto), curata da Agnieszka Zakrzewicz. Scatti che raccontano il rapporto tra il fotografo e il re della Pop Art, a partire dal 1978-80, periodo in cui Bruneau frequentò la Factory a New York e dove tornerà più volte: nel 1982 e nel 1987, all’indomani della morte di Warhol stesso, per documentare la sua casa e gli oggetti destinati alla celebre asta di Sotheby’s.
«I tre scatti che Warhol concesse al ritrattista Bruneau – scrive la curatrice a proposito del primo incontro – hanno la magia del realismo pittorico dei dagherrotipi ottocenteschi, che ritraevano gli uomini in un atteggiamento di sicurezza e dignità che derivava loro dal raggiunto status sociale.

Un Andy Warhol seduto sulla sedia serio e solenne: una inquadratura che ne mostra la figura intera, un’altra ravvicinata a mezzo primo piano, e un campo totale dove in una grande stanza buia la faccia chiara e il parrucchino grigio del soggetto fotografato diventano un forte contrappunto».

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Prima di iniziare la carriera di fotografo, lei è stato attore in diversi film di Georges Lautner…
Da giovane, volevo recitare; a Nizza avevo studiato al Conservatorio d’arte drammatica. Ma da lì mi avevano cacciato perché avevo i capelli troppo lunghi. Benché fossero gli anni Sessanta, in quella scuola erano molto conservatori. Per caso, avevo saputo che il regista Georges Lautner stava cercando personaggi un po’ stravaganti per un suo film. Dato che i miei capelli erano lunghi, ma non abbastanza, avevo comprato un posticcio con cui li avevo allungati e avevo mandato le mie foto alla produzione. Fui subito preso. A quel punto dovetti tenermi sempre quel posticcio in testa! Lautner stava a Parigi, anche se a Nizza c’erano alcuni studi dove girava i suoi film, soprattutto negli esterni. Mi sono trasferito a Parigi per continuare a fare cinema. Lì ho conosciuto il noto sceneggiatore, scrittore e regista Michel Audiard, con lui e Lautner ho girato alcuni film, tra cui Le Pacha (1968) con Jean Gabin dove il mio personaggio era un hippie. A Parigi la vita era abbastanza movimentata. Uscivo parecchio e frequentavo i figli dei fiori e il «mondo della notte» che introducevo nel cinema. Mi piaceva molto anche la musica e, dato che era il momento di quella psichedelica, ho iniziato a lavorare in questo campo facendo spettacoli – anche all’Olympia – con effetti di light show per grandi gruppi rock come i Pink Floyd, i Genesis. Mi divertivo molto e giravo parecchio vivendo in maniera vivace tra cinema e rock’n’roll.

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Cinema e musica, infatti, sono soggetti ricorrenti nella sua fotografia…
Ho sempre lavorato con la luce e con la musica. A Parigi avevo aperto anche un centro che si chiamava The Psychedelic Research Center, dove facevo esperimenti sugli effetti luminosi psichedelici. Mi sono occupato di musica fino al 1974….Conducevo una vita un po’ esagerata, sopra le righe.

Cosa la affascinava del mondo psichedelico?
Vivevamo un’epoca che poteva considerarsi psichedelica in tutto. Ero affascinato dalle porte della percezione e seguivo anche il filone di Timothy Leary nell’assunzione delle nuove droghe allucinatorie. Droghe che mi hanno portato in un mondo parallelo in cui creavo effetti luminosi e realizzavo proiezioni di visioni organiche e oniriche. Tutto questo veniva eseguito al ritmo della musica.

Quando avvenne dunque il passaggio alla fotografia?
Una volta parlando con Bertinotti, mentre stavo realizzando un suo ritratto, gli chiesi di che cosa si sarebbe occupato se non avesse fatto il politico. Lui rispose che avrebbe scelto il mestiere di fotografo. «Perché?», gli chiesi. «A causa di Blow-up, il film di Antonioni», mi rispose. Quel film aveva lasciato anche in me una grande impressione. Certo, non per questo motivo mi sono avvicinato alla fotografia… Più che altro, essendo una persona curiosa, ho sempre «scattato» con la mente per afferrare tutto ciò che avevo intorno. Alla fotografia vera e propria arrivai più tardi, dopo essermi trasferito a New York, quando la mia vita aveva ormai preso un’altra direzione, nel senso che ero più tranquillo. Ma è andata così solo per un breve periodo.

Cosa l’ha condotta in viaggio da Parigi a New York?
Ero attratto da New York, perché lì c’era veramente un’energia pazzesca. Nel frattempo – era il 1974 – mi ero sposato con una signora italiana ed è anche la ragione per cui sono sbarcato in Italia.

La signora era la principessa Giovanna Pignatelli…
Sì, una nobildonna molto stravagante, con uno charme pazzesco e una grande creatività: era abbastanza all’avanguardia per la sua epoca. C’eravamo conosciuti a Parigi e andammo a vivere a New York. Lei aveva organizzato delle mostre in Europa di Andy Warhol che, come si sa, era affascinato dalla nobiltà. Andava letteralmente in tilt con gli aristocratici!

Gerald Bruneau, Andy Warhol's dust, 1980 - Giacomo Guidi   Arte Contemporanea 3

Con le sue fotografie è potuto entrare nel mondo di Warhol, documentando la Factory e osservando da vicino la vita dell’artista…
Era un’esistenza segnata dagli eccessi, nel senso che tutto era portato all’esagerazione, al parossismo. Non facevo che fotografare chiunque passasse di lì. Avendo sempre lavorato con la visione, ero sicuro di avere talento con la fotografia. Anche tutti quei mondi che ho incontrato nella mia vita, partendo dalla strada – un percorso che ho vissuto intensamente e totalmente – hanno fatto in modo che mi sentissi disinvolto e in grado di immedesimarmi nelle varie situazioni. Avevo una grande facilità di approccio con diverse culture, cosa che ha avuto una enorme importanza successivamente, nel mio lavoro di fotogiornalismo, per infiltrarmi in contesti improbabili.

Cosa la colpiva, in particolare, di Andy Warhol?
La leggerezza dell’essere. Era una persona abbastanza semplice che semplificava tutto. Aveva un talento incredibile nel creare delle sinergie, situazioni che erano sempre impreviste e interessanti.

Ha realizzato molti reportage negli Stati Uniti, occupandosi anche della pena dei morte…
Sì, ho scattato diverse foto nei bracci della morte. Un servizio particolarmente intrigante è stato quello sulla vita e la morte di Joseph Paul Jernigan. Insieme al giornalista Pino Corrias, che è autore del libro Ghiaccio blu. L’assassino sepolto nei computer (1997) avevamo sentito una storia che doveva rimanere segreta.
Un condannato a morte aveva fatto dono del suo corpo alla scienza. Ma dal momento che gli era stata fatta un’iniezione letale i suoi organi erano stati avvelenati e la scienza non poteva più servirsi in alcun modo di lui. Allora il suo corpo – che era perfetto – è stato affettato, piallato, fotografato in 3D in ogni sua parte per costruire una mappatura – sempre in tre dimensioni – del corpo umano, a scopo scientifico. Per circa un mese sono stato con il giornalista a Huntsville, città-prigione del Texas, intervistando e fotografando tutti coloro che avevano conosciuto Jerningan, incluso il giudice che lo aveva condannato, per sapere chi era. È un grande racconto sulla pena di morte.

Tra i personaggi che ha fotografato – da Andreotti a Mastroianni – c’è anche Pavarotti con l’anguria…
Pavarotti l’ho fotografato parecchie volte. In quell’occasione fu molto divertente. Decisi di ritrarlo con l’anguria dato che s’intonava perfettamente con il colore della sua camicia. Mi aveva dato appuntamento il giorno prima nella sua casa di Pesaro, ma era molto strano – umorale – e, a un certo momento, si era stancato: mi disse di tornare il giorno dopo per continuare lo shooting. Per me sarebbe stato un problema, il giorno dopo avevo un altro lavoro. Gli dissi che mi dispiaceva ma non potevo fermarmi, tanto più che non avevo neanche lo spazzolino da denti. Fu irremovibile, andò in bagno e tornò con uno spazzolino che proveniva dall’Hotel Ritz di Parigi, me lo diede. Torno domani, dissi tra me e me, ma me la pagherai, dovrai assecondarmi molto ed essere docile. Il giorno successivo ci divertimmo molto, perché lo feci salire a cavallo, cosa che non faceva da anni e poi cantò per me. Verso le cinque del pomeriggio, solitamente faceva gli esercizi di canto. «Che vuoi che ti canti?», mi chiese. «Vincerò», gli risposi. E lui si lanciò.