Maputo o Beira sono un passaggio obbligatorio quando arrivi in Mozambico, sono gli svincoli necessari a qualsiasi destinazione e i posti dove tutto succede. I viali alberati di Maputo, come le coste di Beira, sono i custodi della memoria di ciò che è stato.
Maputo, nonostante la sua storia recente, possiede già una «città vecchia»; è già stata Lourenço Marques. Un nome che evoca la memoria di un passato che ha prodotto l’incontro, o lo scontro, tra due universi culturali, due diversi modi di vedere e di stare al mondo. Tutta la memoria di ciò che è stato, è iscritta nella presenza dei suoi alberi selvaggi, incuranti dei cambiamenti, delle trasformazioni, dei numerosi cataclismi e maremoti. Persone, regimi, guerre, alluvioni, tutto passa senza alterare la morfologia di una città caratterizzata dall’eterna presenza di radici che rompono strade disputando alla modernità il loro spazio di sopravvivenza.
Maputo è dove la modernità avanza, l’economia investe, la cultura vive e si trasforma. È per questo motivo che Maputo, e la sua sorella minore Beira, fagocitano tutta la rappresentazione del paese, come se l’irrequieta bulimia delle radici dell’una e le mareggiate dell’altra divorassero tutta la storia della nazione. Eppure, proprio a Maputo, esiste un altro luogo che si fa custode di memoria: è il Centro de Documentação e Formação Fotográfica, fondato e diretto fino alla sua morte da Ricardo Rangel (1924-2009), uno dei più grandi fotografi del continente africano (in mostra a Bologna, fino al 28 ottobre, nella storica osteria Mutenye, con ventisette suoi scatti).
Quando arrivammo al centro, una delegazione di insegnanti e alunni del Liceo Artistico Arcangeli di Bologna, fummo accolti da uno sguardo tagliente, inquieto, ma anche schivo e indolente, quello che si riserva agli intrusi. Dalva Nascimento, la ragazza brasiliana che viveva a Maputo da anni, e che ci accompagnava durante la visita, esclamò: «Quello è Ricardo Rangel, il maestro, colui che ha fondato questo centro…». In quello sterminato archivio fotografico sono raccolti trent’anni di storia del paese, raccontata dalla voce subalterna del colonizzato.
La ricostruzione della genesi professionale del fotografo Ricardo Rangel si dipana essenzialmente lungo tre decenni (dal 1950 al 1980). L’importanza della sua opera prescinde dalla qualità artistica delle fotografie. Beatriz Kiener, moglie di Rangel e attuale direttrice del centro, sintetizza così l’arte fotografica del marito: «Ricardo diceva sempre che non importa la qualità di una foto, i chiaroscuri, i tempi di esposizione, etc. Conta soltanto la sua capacità di narrare una storia».
C’è un mondo sociale che Rangel vede e rappresenta, ed è esattamente lo stesso che sfugge alla vista dei suoi contemporanei. Questa sua capacità di donare visibilità all’invisibile rende attuale e universale la sua opera. È per questo motivo che la denuncia esplicita del sistema coloniale, e della sua violenza intrinseca, è solo un ingrediente della sua fotografia, e nemmeno il più importante. Le immagini di Rangel puntano il dito sulla censura che il discorso coloniale produce, l’occultamento di una realtà che è davanti agli occhi di tutti ma che nessuno «vede».
Il dispositivo rangeliano svela la sostanziale differenza che esiste tra «guardare» e «vedere», fino a trasformarsi in strumento universale di opposizione e smascheramento dei manipolatori di verità. È questo che conferisce un carattere sopranazionale a tutta la sua opera.
Ferro em Brasa del 1973, la foto del pastorello marchiato a fuoco dal suo padrone per aver smarrito un capo di bestiame, rappresenta una condanna senza riserve delle scuole di pensiero che predicavano l’umanizzazione del discorso coloniale. La foto mostra in maniera contundente tutta l’arbitrarietà e la ferocia del tardo colonialismo portoghese. Il valore di uomo del piccolo pastore non supera quello della bestia. L’immagine rappresenta una denuncia devastante per la propaganda portoghese perché l’evidenza della violenza fisica rende palpabile anche quella simbolica di cui è intrisa la quotidianità coloniale. Ferro em brasa è la sintesi dell’opera di Rangel, quello che la rende irripetibile è la sua asprezza racchiusa nell’espressione del soggetto. Più che la violenza esplicita del marchio sulla fronte, inquieta il grido di pietra celato nello sguardo, neutro, del ragazzo. Quello sguardo incarna l’orrore che si fa normalità.
Le istantanee di Rangel scuotono e scarnificano una presunta normalità fino a trasformare i soggetti in icone di una lotta per il più elementare dei diritti: la dignità umana. Rangel svela con una semplicità disarmante l’orrore celato tra le pieghe del quotidiano.
A chi altri poteva saltare in mente di fotografare le etichette dei bagni? Di qua gli uomini di là i servi, di qua i bianchi di là i neri. Homens e Servantes è il simbolo di una separazione non negoziabile perché connaturata al mondo coloniale.
La capacità di fotografare gli ultimi, gli sfruttati, i reietti, non l’ha certo inventata Rangel, quella di trasformarli in muto veicolo di lotta e denuncia è certamente una sua peculiarità. L’indignazione sembra palpitare nel mezzo fotografico prima che nell’uomo, la macchina prende vita e trasforma il Banale in Bello, il Normale in Denuncia. In un tempo in cui stare a guardare equivaleva a essere complici, Rangel «scruta», gratta la patina delle apparenze e «rivela» le mostruosità del suo presente.
La Pentax di Rangel non fotografa gli aguzzini ma gli oppressi, non denuncia gli oppressori ma il sistema che li produce. Rangel è un guerrigliero solitario armato di macchina fotografica, un personaggio scomodo che ci insegna a cogliere le incongruenze del colonialismo di ieri e del neocolonialismo odierno, la mostruosità della povertà e dell’umiliazione che la globalizzazione ha trasformato ma non cancellato.
Ieri, la cosificazione di uomini che diventavano moli ambulanti, oggi, i ritratti perturbanti e senza nome di meninos de rua, sporchi e spaesati, che guardano l’obiettivo con la sorpresa innocente di chi si aspetta da un momento all’altro un miracolo da quell’oggetto magico. L’insanabile fatalismo degli ultimi, condannati a credere alla «realtà del miracolo» per sfuggire all’ «irrazionalità del reale».