Senza troppi giri di parole in francese «être à l’ombre» vuol dire stare in gabbia, andare in galera. Luce e ombra – certamente – alludono sempre a significati metaforici e allegorici, come enuncia anche il titolo della mostra De l’ombre à la lumière. Progetti realizzati con persone in stato di detenzione, curata da Daniela Rosi nella sede di Palazzetto Tito della Fondazione Bevilacqua La Masa a Venezia (fino al 15). La rassegna è nata da uno sforzo collettivo: promossa dall’istituzione veneziana in collaborazione con l’ente formativo Préface di Marsiglia, ha tra i partner anche l’Associazione di Creativi Officina delle Nuvole con il sostegno della Cooperativa Rio Terà dei Pensieri, Lao (Laboratorio artisti outsider) e l’università Ca’ Foscari di Venezia. Nel suo percorso, presenta i lavori realizzati tra il 2014 e il 2015 da sei fotografi che da anni interagiscono con i luoghi di reclusione: Marco Ambrosi, Giorgio Bombieri, Davide Dutto, Giovanna Magri, Eric Oberdorff e Klauvdij Sluban. Senza pietismi, si affronta in faccia una realtà dura in cui non si giudica ma si mettono in discussione gli stereotipi, si cerca un dialogo – mediato dal corpo – tra il dentro e il fuori e si guarda al lavoro come fattore determinante per la conquista di dignità. La fotografia, medium privilegiato, svela le sue fragilità e, allo stesso tempo, la sua forza nel farsi portavoce di una serie di racconti di cui sono protagonisti – non solo soggetti della rappresentazione – i detenuti stessi.

Lavorare, produrre, dà senso allo scorrere del tempo, contribuendo alla ricostruzione dell’io, come si vede in Les fleurs du mal, progetto realizzato da Ambrosi con i detenuti della Maison Centrale d’Arles, carcere di massima sicurezza dove il fotografo italiano organizza da anni laboratori (gli utenti possono conseguire un diploma professionale riconosciuto dallo stato), indirizzato alla costruzione di una sorta di giardino artificiale, terreno di sperimentazione espressiva che fiorisce producendo immagini da stampare su foulard e borse. Così come quello della Casa di reclusione per donne all’isola della Giudecca, a Venezia, dove Bombieri ritrae figure femminili che hanno in mano lo scopettone o la zappa, consapevoli che fare le pulizie o prendersi cura dell’orto è pesante, ma rende il tempo «leggero».

Quanto al carcere di Saluzzo è proprio dal suo laboratorio che sono uscite le stampe Fine Art degli otto personaggi fotografati da Davide Dutto: Face to face è un’anticipazione del progetto realizzato con i detenuti della Casa di reclusione di Saluzzo e della Casa Circondariale di Torino in collaborazione con il Museo di antropologia criminale Cesare Lombroso che ospiterà la mostra nel 2016. Ritratti frontali scattati nelle piccole celle delle prigioni o nel corridoio del museo torinese, trasformate per l’occasione in set in cui è in atto il tentativo di sradicare etichette, categorie e preconcetti. La tipologia è quella della fotosegnaletica (memore dell’«atlante criminale» di Lombroso) che palesa la sua totale inaffidabilità: l’identità dei soggetti ritratti – buoni e cattivi – non solo non è svelata, ma resa ancora più ambigua.

Diversamente dall’Italia, dove le leggi correnti permettono di ritrarre i volti dei detenuti, in altri paesi è vietato. I limiti sono tanti: niente sbarre, nomi o facce. Così Klauvdij Sluban osserva a distanza gli adolescenti del carcere di Kolpino a San Pietroburgo, Cesis (Lettonia) e Mojaisk (Russia), mettendo poi la macchina fotografica nelle mani dei minori brasiliani della prigione Mario Covas e Arujà di São Paulo affinché raccontino i loro luoghi, paradossalmente coloratissimi. Il coreografo e reporter francese Eric Oberdorff, invece, isola frammenti in bianco e nero di corpi in movimento nella Maison d’Arrèt di Nizza. In carcere non ci sono specchi che mostrano la figura per intero, la percezione dell’individuo è frammentaria. Il suo progetto Corpus fugit include un video che, per scelta curatoriale, è stato ridotto e raddoppiato in forma caleidoscopica per permettere alle ombre in movimento delle detenute (video e foto sono stati realizzati nel 2014 durante un laboratorio cinematografico) di recuperare la loro integrità senza smascherarne l’identità.

L’ultimo lavoro – Rigenero – è coniugato al femminile: Giovanna Magri con l’assistenza di Dannia Pavan lo ha sviluppato nel 2015 all’interno della Casa circondariale di Verona Montorio, come evoluzione di un progetto di scrittura autobiografica iniziato cinque anni fa. Con la polaroid e l’uso del banco ottico immediatezza/approssimazione e lentezza/precisione sembrano trovare un equilibrio che è anche quello a cui aspirano le donne ritratte.

Con grande sforzo emotivo, le detenute, in questa ipotetica ricostruzione della relazione di fiducia con se stesse, mettono a nudo i sentimenti più profondi. La crisi viene vissuta come risorsa, tappa di una trasformazione anche terapeutica. Hanno scelto il modo in cui raffigurarsi e reso partecipe il pubblico di questo percorso. Tante sfaccettature si celano dietro i vissuti personali, al di qua e al di là della linea di confine. «Tanti piani di lettura di una realtà apparentemente sempre uguale», come afferma la curatrice Daniela Rosi.