Se qualcuno ci chiedesse di che cosa parliamo quando parliamo di «capitale algoritmico» con ogni probabilità gli faremmo vedere un’immagine di Jeff Bezos o di Mark Zuckerberg. E sarebbe un gesto molto ragionevole. Ma non solo nel senso che gli algoritmi sono in grado di produrre immani profitti sfruttando una forza-lavoro erogata gratuitamente dagli inconsapevoli (almeno fino a ieri) utenti «profilati» e «datificati» (è il cosiddetto capitalismo «cognitivo»). Il gesto sarebbe ragionevole, spiega Ruggero Eugeni nel suo libro importante e innovativo (Il capitale algoritmico, Scholé, pp. 336, euro 21), anche perché abbiamo messo mano a una «immagine». E aggiungerebbe che le immagini digitali di ultima generazione hanno assunto un’intima, e inavvertita, funzione algoritmica.

Intanto perché intrecciano insieme un aspetto visuale, un aspetto informazionale e una serie di regole che determinano il passaggio dall’uno all’altro. In secondo luogo perché su questo intreccio si innesta il carattere di «dispositivo» di queste immagini, cioè in buona sostanza la loro capacità di mediare, e di regolamentare, una duplice tendenza: da un lato «la presa di possesso e l’ordinamento logico e geometrico del mondo da parte delle immagini (il ’farsi immagine del mondo’)», dall’altro «la manifestazione delle immagini nel mondo quali presenze molteplici, attestabili e affidabili (il ’farsi mondo dell’immagine’)».

L’ALLUSIONE a un celebre saggio di Heidegger (L’epoca dell’immagine del mondo), insieme alla sua ripresa nella forma del chiasma appena enunciato sono ovviamente del tutto intenzionali. Eugeni qui si misura con ciò che Heidegger chiamava Ge-Stell, la «riunione» di tutti i modi del dis-porre: il «dispositivo tecnico globale», come potremmo tradurre. E ci si misura mostrando che il regime tecnologico attualmente in vigore è amministrato in larga parte da immagini-algoritmi. Di cui sarà dunque bene mettere in chiaro e indagare a fondo non solo l’economia e l’ecologia ma anche il progetto politico nel quale si iscrivono.

Senza tuttavia lasciarsi fuorviare dalla credenza secondo la quale questo progetto beneficerebbe dei requisiti dell’esplicitezza e dell’intenzionalità, e attrezzandosi piuttosto per coglierne lo sporgersi, al tempo stesso oggettivo e imprevedibile, sulla «polis» in quanto comunità. Un progetto politico nel senso di «orientato al comune», dunque, prima ancora che orientato al governo o al dominio. È uno scarto che si registra spesso, quest’ultimo, come ci informa l’autore con l’aiuto di una robusta esemplificazione. Uno scarto che gli fa prendere partito, a più riprese, per un approccio ai dispositivi tecnici che sappia porre l’accento sulla «interazione tra processi di determinazione dall’alto e processi di contro o ri-determinazione dal basso all’opera in ciascun dispositivo».

NEI SEI AMPI CAPITOLI del libro, in particolare, l’economia del visuale (la circolazione di immagini), quella della luce (la circolazione di energia luminosa) e quella dell’informazione (la circolazione di dati), vengono riferite ai rispettivi contesti ecologici e politici attraverso analisi accurate e competenti dei dispositivi che ne regolano la connessione e la ricombinazione ben oltre le previsioni progettuali esplicite. Un esempio per tutti: i Google Glass messi in circolazione nel 2013 e poi ritirati dal commercio per motivi da cui Eugeni ricava molti insegnamenti.

IL FALLIMENTO di un dispositivo per la diffusione di immagini-algoritmo, infatti, ci dice molto sulla tenuta del progetto di dominio a cui il dispositivo farebbe presuntivamente riferimento (per esempio la sostituzione del mondo vero con un mondo di simulacri, compiutamente datificato ecc.) e ci richiama, piuttosto, al rapporto di intimo affidamento che l’essere umano, da sempre, stabilisce «naturalmente» con le tecnologie, suggerendo che forse è proprio questa naturale simbiosi a decidere non solo dei destini ma anche delle opportunità emancipative tenute in riserva dal «dispositivo tecnico globale».