Costruire, divenire, movimento: nel sistema dinamico del fare, con tutte le possibili varianti che si possono intercettare, la tecnosfera è un passaggio determinante nella definizione dell’ambiente costruito dagli esseri umani per garantire la loro sopravvivenza sul pianeta. Un ambiente che guarda al futuro con la consapevolezza del passato: tema di grande attualità anche nella declinazione delle arti visive. La riflessione ci porta nel cuore di Tecnosfera: L’uomo e il costruire, IV edizione di Foto/Industria (a cura di Francesco Zanot), prima Biennale al mondo dedicata alla fotografia dell’industria e del lavoro, promossa e organizzata da Fondazione MAST con la mostra Anthropocene con le fotografie di Edward Burtynsk e i film di Jennifer Baichwal e Nicholas De Pencie (curata da Urs Stahel e prorogata fino al 5 gennaio 2020) e 10 esposizioni nel centro storico di Bologna (fino al 24 novembre), tra cui le fotografie in bianco e nero scattare nel 1964 da Lisetta Carmi nel porto di Genova e negli stabilimenti dell’Italsider (accompagnate dalla musica composta da Luigi Nono che ne registrò voci e rumori) e il sevizio fotografico del ’44 sulla fabbrica di pneumatici Firestone e sull’American Viscose Corporation commissionato a André Kertész dalla rivista statunitense Fortune, arrivando ai nostri giorni con la ricerca di Armin Linke Prospecting Ocean, per spostarci dall’Angola con l’artista Delio Jasse e il suo tentativo in Arquivo Urbano di riscrivere la storia del suo paese e dell’Africa attraverso l’ispirazione di archivi non formali («burocrazia, documenti d’identità, scritte e timbri che trovo nei mercati delle pulci di ogni dove») al Giappone con Yosuke Bandai.

Nell’ambiente affrescato al piano terra del Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, una griglia circolare di metallo verniciato di bianco è la scenografia di A Certain Collector B (titolo anche del suo primo libro, pubblicato nel 2017) in cui sono state collocate 70 immagini a colori, una selezione delle 1200 raccolte da Yosuke Bandai (è nato a Tokyo nel 1980, dove vive e lavora) ed esposte per la prima volta nel 2016 alla galleria TARO NASU di Tokyo, in occasione della personale Friday, September 9 – Friday, October 7, 2016. Un archivio che l’artista multimediale sta creando nel tempo attraverso il recupero e la raccolta di oggetti rotti o inutilizzati. «Ho raccolto gli oggetti buttati via dagli altri, li ho portati a casa e assemblati come per creare delle sculture. Poi, invece di fotografarli, li ho messi su uno scanner piano e li ho scansionati». La poetica dei rifiuti ha un suo fascino in cui estetica e impegno sociale trovano nell’azione dell’artista anche una riflessione personale nella rappresentazione di un passaggio della sua vita stessa. «Le opere sono una parte del mio flusso creativo» – spiega Bandai – «Sono quello che ero io in quel momento». Questa sua collezione di immagini di oggetti fluttuanti, esposta a Bologna, è nata nell’arco di un anno che per l’autore è stato particolarmente significativo dal lato emotivo, segnato dalla morte della nonna Tsuneko e dalla nascita del nipote, figlio di sua sorella Chiaki. «Le immagini sono ispirate a quelle dell’ecografia del bambino che cresceva nel ventre di mia sorella. Ma per me è molto importante la libertà dello spettatore. Le mie opere parlano da sé e viste da altre persone, in altri momenti, contesti e presentate in altro modo, possono dire cose diverse. Tutto nasce dal rapporto tra me stesso e la società che mi circonda. Periodicamente vado in giro in auto sia nella zona in cui abito, a Tokyo, che nei sobborghi. Spesso vado alla ricerca di oggetti anche nelle discariche abusive, posti che non sono troppo sicuri. Il metodo di collezionare è lo stesso ma ci sono delle varianti».

Nella realizzazione di questo lavoro hai citato tua nonna e tua sorella. Quanto è importante il senso della famiglia e quanto si riflette nel tuo processo creativo?
Le mie opere e anche il mio flusso artistico è ispirato molto più dagli eventi che mi sono molto vicini che non da quelli grandi che mi stanno intorno. La famiglia rappresenta uno degli elementi intimi, ma ce ne sono anche altri che hanno una grande influenza sul mio sentire, quindi sul mio modo di fare arte.

Parlavi di morte e nascita, un processo che analogamente riflette la modalità con cui recuperi gli oggetti gettati via e gli restituisci una nuova vita…
La mia visione è un po’ olistica, nel senso che vedo la vita e la morte in un tempo indefinito. Quando ho parlato del fatto che queste opere riflettono un pezzo della mia vita, intendevo che in un dato segmento ci sono entrambe le cose. In realtà, non ho un’intenzionalità nella creazione dell’oggetto o della foto, perché è l’oggetto stesso che ha una vita propria e comunica allo spettatore qualcosa di cui, forse, nemmeno io sono consapevole. La mia è più una stimolazione del pensiero che non una trasmissione. La fotografia è un mezzo che si presta a parlare lingue diverse. Lo stesso oggetto, collocato su un fondo diverso, può tramettere allo spettatore un’idea diversa e molto personale.

L’attenzione all’oggetto fa parte della cultura giapponese, in particolare è presente anche nello shintoismo con la sua divinizzazione…

In Giappone è nato prima lo shintoismo che non è una vera religione ma un insieme di tradizioni, poi è arrivato il buddismo che si è amalgamato con lo shintoismo. Sono credenze ben radicate nella vita di tutti i giorni, legate al qui e ora. Non credo, però, che siano sentite così profondamente da ispirare le persone a livello mentale. Riguardo la fisicità degli oggetti, in realtà, non sono uno scultore, realizzo immagini. Però, questo oggetto è fisico nel senso che la foto è contenuta all’interno di una cornice che ha uno spessore, un vetro, un supporto. Collocando, poi, questi oggetti-opere nel tema della tecnosfera possiamo anche domandarci cosa resterà di loro tra centinaia di anni. Sicuramente la cornice intorno non si modificherà, quindi fa parte di tutte quelle cose che l’uomo ha fatto e lasciato.

Lo scanner è lo strumento di mediazione a cui demandi l’azione meccanica di fermare la vita dell’oggetto…
Ci sono molti aspetti legati all’azione che delego allo scanner. C’è una meta cultura e una meta espressione. Intanto vedo da sopra mentre lo scanner vede da sotto, quindi è come se lo scanner mettesse in piedi gli oggetti. Registrare le cose dall’alto, per me, è troppo assoluto, quindi preferisco usare un altro punto di vista che può avere diversi significati.

Per esempio?

Vedo il concetto di sopra/sotto associato a dicotomie come celebrità e persone normali, oppure ricchi e poveri. Dato che ho una certa allergia alle gerarchie, mi piace vedere le cose da sotto.

Nell’associare gli oggetti sullo scanner, l’azione è spontanea?
Principalmente si tratta di improvvisazione. Quando poggio gli oggetti sullo scanner, in realtà, li vedo dall’alto, ma la scansione avviene al contrario perciò non sempre il risultato è quello che mi aspetto.

Nell’idea di collezionare oggetti e creare un grande archivio c’è anche una volontà di mettere ordine nel disordine?

Devo dire che, in realtà, se capissi totalmente quello che dicono le mie opere non sarebbe così bello. Però questa domanda mi stimola una riflessione. L’anno che ho dedicato a realizzare tutte queste immagini era quello in cui, secondo la consuetudine giapponese, si accompagnano le persone decedute. E’ come se ci fosse un viaggio per staccarsi dalla persona. Questo mio operare una razionalizzazione, mettere le cose al loro posto, può essere sicuramente legato al momento emotivo del lutto.