Adesso gli ex deportati sono rimasti in pochi, adesso si contano sulle dita di due mani. L’elaborazione del lutto e le questioni che questa scomparsa porta con sé – ciascuno con la propria storia e la propria personalità, lontani tutti dallo stereotipo dell’eroe – si accompagna al dolore. Ricordarne le storie e i sorrisi scalda il cuore. Piero Terracina, ex deportato ad Auschwitz numero A-5506, è morto lo scorso dicembre. Agli interrogativi dei più giovani replicava spesso ridendo: «Ho capito che sono vecchio ma non mi fate morire prima del tempo».

ORA PERÒ se ne è andato anche Franco Schonheit, aveva novantadue anni ed è stato seppellito nel cimitero della «sua» Ferrara dopo una vita trascorsa a Milano. È sempre stato un vero signore: alto e gentile, dall’ironia elegante e sferzante, melomane appassionato. Il figlio Gadi lo ha salutato chiamandolo «il ragazzo di Buchenwald», matricola 44826. Ha taciuto per decine di anni la sua storia di giovane ebreo deportato, ne aveva sedici quando, con il padre Carlo e la madre Gina Finzi, vengono catturati nella notte della retata degli ebrei di Ferrara il 15 novembre 1944. Rimangono tutti e tre a lungo a Fossoli – vicino Modena – perché le nonne sono entrambe cattoliche e, in quanto ‘ebrei-misti’ i nazisti li adibiscono all’organizzazione del campo di internamento. Ma il due agosto il campo viene evacuato e gli Schonheit deportati. Le destinazioni sono differenti: a Revensbruk la madre Gina, a Buchenwald il padre Carlo con il giovane Franco. Sono altri nomi di quell’arcipelago dell’orrore da ricordare in questi giorni della memoria in cui si celebra la liberazione di Auschwitz. Sopravvivono fino all’11 aprile del 1945 quando il campo viene liberato dagli americani.

Gli Schonheit, unico caso in Europa, sopravvivono tutti e tre alla prigionia e al progetto di sterminio industrializzato degli ebrei voluto dal nazismo. Riprendono la vita segnati ma inflessibili nel guardare al futuro: «la reazione è stata la stessa per tutti e tre – spiegava Franco – perché se continuavi a guardare indietro era impossibile andare avanti». Così per anni ha taciuto: «a chi interessa?» rispondeva ironico arrotolando la r quando negli anni novanta del secolo scorso gli si domandava la sua storia. Ad un certo punto però anche lui ha iniziato a raccontare: prima nelle scuole dei nipoti, poi ad uno straordinario gruppo di bambini della scuola elementare Giuseppe Mazzini di Bari. I giovanissimi studenti replicavano quando ripeteva determinato che non sapeva per quale motivo proprio lui fosse sopravvissuto. «A Buchenwald – spiegava – si moriva di fame, di freddo, di percosse, di piccoli errori commessi che venivano puniti con la morte». «Una bambina – ha ricordato commosso il figlio Gad durante le esequie – gli ha spiegato con garbo e intensità: «sei sopravvissuto per venire qui a raccontare a noi quello che è successo, è importante questo. Molto importante».
Piero Terracina, ebreo romano sopravvissuto ad Auschwitz, era invece stato arrestato a Roma nella primavera del 1944: il giorno di Pesach, la pasqua, il giorno che nella tradizione ebraica celebra il passaggio dalla schiavitù alla libertà. Feroce ironia della storia. Franco e Piero avevano in comune un parlare chiaro e preciso, una memoria lucida e mai retorica.

ERANO DEI TESTIMONI che raccontavano cosa avevano visto e vissuto. Terracina testimoniava anche di cosa avesse solo udito: «Era la notte del 2 agosto 1944, ero rinchiuso nella mia baracca. La notte nel lager c’era il coprifuoco e non si vedeva niente però ho sentito tutto: sentimmo urlare in tedesco e abbaiare i cani, dettero l’ordine di aprire le baracche del campo degli zingari, da lì grida, pianti e qualche colpo di arma da fuoco. All’improvviso, dopo più di due ore, solo silenzio e, dalle nostre finestre vedemmo, poco dopo, il bagliore delle fiamme altissime del crematorio. La mattina, il primo pensiero fu quello di volgere lo sguardo verso lo Zigeunerlager che era completamente vuoto, c’era solo silenzio e le finestre delle baracche che sbattevano». Tra i pochissimi testimoni dell’eliminazione di Rom e Sinti ad Auschwitz ricordava sempre quel rumore di finestre nel campo vuoto di persone, di donne e di bambini. Un rumore ed un silenzio che devono averlo accompagnato a lungo. Ma non è un caso che Piero Terracina ci tenesse a ricordare quello che aveva udito perché esistono molte tipi di memoria e, per mettere insieme le tessere di una storia – e della Storia – è necessario allenarle tutte: memoria visiva ed uditiva insieme alle tabelline e alle canzoni, alle poesie, alle emozioni e alle persecuzioni.

ANCHE PRIMO LEVI ha scritto e raccontato dell’odore di Auschwitz. Terracina e Schonheit sono mancati ad un mese uno dall’altro, la loro voce ci mancherà. Sentiremo la mancanza del loro parlare limpido. Adesso restano le loro interviste, il loro libri, i documentari. Adesso è finito il tempo del ricordo ed inizia quello della responsabilità. È tempo di scegliere la centralità di questa vicenda nella storia d’Europa. È tempo di collocarla nel tempo e nello spazio. Ha mostrato cosa l’uomo è capace di fare a sé stesso. E il fatto che sia accaduto è tutt’altro che rassicurante: significa che l’uomo può farlo… e rifarlo. Questo dicevano Piero Terracina e Franco Schonheit agli studenti.

Da vent’anni il ‘Giorno della Memoria’ aiuta scuole e istituzioni a riflettere sulla Shoah. Una data nazionale – poi riconosciuta anche a livello europeo – che ha imposto la Shoah alla riflessione collettiva. È data di un calendario civile: non basta la pietà e la commozione sono necessari lo studio e le scelte agite nel presente. «Leggere, leggere, leggere»: concludeva i suoi racconti Franco Schonheit. Un calendario riflette la condivisione di valori su cui articolare l’idea stessa di cittadinanza e di diritti umani. Implica l’assunzione di date – che siano il 27 gennaio, o il 25 aprile – che sono paradigmi su cui articolare i musei e i programmi scolastici, le gite di istruzione e le manifestazioni. Ma non basta una singola data espunta dal calendario: il 27 gennaio in Italia non è successo nulla, sono i sovietici ad essere arrivati ad Auschwitz. Date assurte a simbolo vanno quindi tenute nel calendario per essere paradossalmente poi spogliate proprio del loro significato simbolico e ancorate alla storia che raccontano. A rendere fertili, le date è il loro susseguirsi: il 27 gennaio ‘vale’ se posto accanto al 16 ottobre – la data della razzia degli ebrei di Roma nel 1943; al 28 ottobre del 1922 – la marcia su Roma delle colonne fasciste; accanto al 10 giugno del 1924 quando è stato ammazzato Matteotti; e poi al 24 dicembre del 1924 quando una delle leggi ‘fascistissime’ modificava le attribuzioni e le prerogative del Presidente del Consiglio dei ministri che diveniva Capo del Governo, Primo Ministro, Segretario di Stato.

FARNE UN CALENDARIO significa analizzare somiglianze e differenze. La memoria solo apparentemente riguarda il passato, è invece un impegno costante di osservazione del presente, di riflessioni sulle simmetrie e le differenze delle storie e della Storia. Esiste – lo ha scritto più volte Alessandro Portelli – una memoria che monumentalizza e per questo assolve e rassicura ma esiste anche «una memoria come scandalo, una memoria che ribadisce – con William Faulkner – che ‘il passato non è morto; anzi non è neanche passato’. Una memoria assolutrice dice che ‘è accaduto ma noi siamo diversi e non accadrà più’; una memoria scandalo ci avverte invece, con Primo Levi che ‘è accaduto, dunque può accadere’». Franco e Piero non si conoscevano ma avevano, intatta, la capacità di scandalizzarsi e il coraggio di vivere, nonostante tutto. Questo va ricordato.