Uscito in Usa, l’autunno scorso, sfruttando la coincidenza con il momento elettorale del mid term The Front Runner, arriva nelle sale italiane quando negli Stati uniti si sono già aperti i giochi su un’altra elezione, quella per la prossima Casa bianca. Questa co-produzione tra Sony e la compagnia canadese Bron Studios, con Hugh Jackman e un supporting cast di prestigio, è incentrato sulla storia del nodo complicato tra il sistema politico americano e i media che lo raccontano – un tema che continua ad essere attualissimo nell’America di Trump; che – pensano in molti – ha pesato parecchio sulla sconfitta di Hillary Clinton; e che strega già la nuova corsa alla presidenza.

SCRITTO da Jason Reitman (anche regista) insieme al giornalista Matt Bai e a Jay Carson, il film è, per certi versi, un anti-Tutti gli uomini del presidente. Il ruolo della stampa qui, infatti, non è glorioso come quello del «Washington Post» di Woodward e Bernstein bensì problematico. Reitman e Bai rispolverano un episodio della recente storia Usa che, nell’era di grab them by the pussy, e del vestito blu macchiato di sperma di Monica Lewinsky, sembra un rassicurante reperto d’antiquariato. Ma, secondo il loro film, è proprio in quell’episodio che starebbero i semi del nuovo rapporto tra media e presidenza che ha caratterizzato sia gli anni di (Bill) Clinton che l’ascesa di Trump.

«CUT» e siamo nel 1987, Gary Hart (Jackman), il giovane ex governatore del Colorado, è in dirittura per la nomina democratica alla Casa bianca. Bello, appassionato, eloquente e dotato della classica famiglia da fotografia, Hart è una luminosa promessa del partito per invertire la rotta, dopo due mandati di Reagan. È anche uomo sicuro di sé e delle sue convinzioni, tra cui figura quella di non parlare mai della vita privata con i giornalisti. Pettegolezzi sulle sue infedeltà spifferati al «Miami Herald», negati da lui (che stupidamente sfidò la stampa a pedinarlo) ma poi cristallizzati nella foto abbracciato a una ragazza bionda di nome Donna Rice, dopo una serata festaiola a bordo di uno yacht chiamato Monkey Busines, presero sopravvento sul coverage nazionale mettendo fine entro breve alle sue speranze e a quelle del partito. Hart fu il primo candidato presidenziale della storia moderna Usa affondato da uno scandalo sessuale. E il film di Reitman mette l’accento su una domanda interessante: perché si è arrivati a trattare la vita privata di un candidato politico, nei suoi aspetti più sensazionalistici, come parte delle news. Ed è giusto? La risposta nel suo film arriva durante la ricostruzione di una riunione di redazione al «Washington Post», quando un giornalista solleva la possibilitàblicare le rivelazioni su Rice. «Bravo, e se poi domani escono sul «New York Times»?» risponde il capo redattore.

«C’È STATO un momento nel 1987 quando per la prima volta abbiamo cominciato a pensare e a trattare i politici come celebrities e gente di spettacolo. Quando crei una cultura delle celebrities nel tuo sistema politico finisco con politici che sono celebrities», ha detto Matt Bai in un’intervista al «New York Times». Sul fatto che la celebritizzazione della politica abbia creato un mostro, nel 2016 sono d’accordo tutti. Dal tipo di coverage che si inizia a vedere dei candidati per il 2020, tutto all’insegna delle polemiche e del culto delle personalità sembra purtroppo che la lezione non sia bastata.