Dario Fo compie oggi 90 anni. E si stenta a crederlo, perché davvero sembra possieda il dono dell’eterna giovinezza. Una lunga storia di artista e di cittadino, la sua, che lo ha portato al massimo riconoscimento mondiale in campo letterario e culturale, quel premio Nobel ottenuto a Stoccolma dalla severa Accademia reale svedese (tra i mugugni e i rimbrotti dei molti concorrenti delusi), perché «nella tradizione dei giullari medievali, fustiga i potenti e ridà dignità agli oppressi».

Una storia la sua che appunto è stata giocata tutta in positivo e tutta contro il potere. Anzi contro «i poteri», di qualsiasi tipo e vestimento fossero. Una storia che ha percorso tutti i generi spettacolari, mantenendo e arricchendo però ogni volta il suo «stile», la sua «cifra», divenuta collettiva ogni volta grazie alla lucidità politica con cui Fo, lungo più di 60 anni di carriera, ha filtrato, individuato, stralunato i caratteri profondi di un paese e della sua cultura. Si potrebbero scrivere libri, e già ce ne sono molti, sulla sua arte poliforme, difficile ogni volta da delimitare e definire, perché dall’amore originario per il disegno e la pittura, quasi usando lo stesso tratto, Fo aveva riposto (solo temporaneamente) colori e pennelli per il più perfido dei cabaret, che metteva letteralmente Il dito nell’occhio ad ogni ordine (sociale e benpensante) costituito, anche quello ancora «in formazione» pochi anni dopo la fine della guerra.

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E già precorrendo i tempi, con intuizione quasi inconscia di ricerca di un pubblico vasto e popolare, fece la scelta della commedia brillante dove avrebbe incontrato la bellissima Franca Rame e spopolato nei teatri maggiori, come il Sistina di Garinei e Giovannini (e perfino a Canzonissima, se l’implacabile censura Rai non li avesse cacciati). Anche se i suoi apologhi comici e con musica non avevano nulla di politicamente corretto, fin dai titoli irriverenti e divenuti quasi proverbiali: Settimo ruba un po’ meno, Isabella tre caravelle e un cacciaballe, La Signora è da buttare (che sarebbe stata poi l’America…). Per non parlare di Bella ciao che portò al festival di Spoleto, e da lì in tutta Italia, il valore politico e attuale di un patrimonio musicale popolare che era direttamente lezione di storia, oltre che di umanità. Dal ’68 però la storia di Dario Fo è ricominciata, con nuovi e più potenti fragori.

La sua Comune (unica organizzazione in grado di riunire e tenere a bada tutti i gruppi e le sigle della litigiosa nuova sinistra) è stata la «casa della cultura» delle nuove generazioni. Ha fatto scoprire loro il teatro come elemento per nulla separato dalla realtà anche più torbida delle cronache politiche, e ha fatto indagine su fatti e fattacci che la strategia della tensione e i suoi strateghi andavano disseminando per le vie e le ferrovie del paese. E insieme alla satira feroce sui protagonisti della politica (un titolo per tutti, Il Fanfani rapito), Fo ha addirittura inventato una lingua, quel grammelot di Mistero buffo che ha costituito un modello insuperato di lingua tra il corpo e la scena.

I suoi successi, scritti e vissuti assieme alla sua Franca, sono infiniti, e attardarcisi sarebbe inutilmente «celebratorio», così come il ricordare le grandi presenze della nostra scena che in qualche misura gli sono debitrici, da Marco Paolini a Paolo Rossi. Oggi, anche per la fama e il Nobel, Dario Fo è entrato forzatamente tra i «padri» della patria Italia. Ma una cosa lo distingue dagli altri: lo sberleffo e lo sghignazzo che continua a riservare a tutto ciò che non gli piace. Lingua tagliente e occhio stralunato, continua a distruggere in due battute tutto ciò che non va, a volte anche spiazzando gli estimatori più pigri.

Soprattutto per questo bisogna fare gli auguri a Dario (e a tutti noi): che continui a non accontentarsi, per tanto e tanto tempo ancora.