È sempre una sincera curiosità verso l’essere umano ad indirizzare un percorso che per Valerio Bispuri (Roma, 1971) non è mai soltanto professionale. Complice, talvolta, la casualità. Come quando negli anni Novanta, seguendo un amico, s’iscrive a un corso gratuito di fotografia. La svolta arriverà però nel 2001: dopo un lungo viaggio in Sudamerica che il fotoreporter definisce il suo «cammino che guevariano», quello che era un hobby diventa professione. «Al ritorno avevo capito due cose: volevo vivere in Sudamerica e fare il fotografo», spiega Bispuri. Sceglierà come seconda patria l’Argentina e solo recentemente, dopo aver vissuto per dieci anni a Buenos Aires (ci torna almeno due o tre volte l’anno, girando anche in altri paesi latinoamericani), nel 2010 ha deciso di trasferirsi nuovamente a Roma, dove vive suo figlio.

Pubblicato da Contrasto, il libro Paco. A drug story (verrà presentato oggi al festival Internazionale di Ferrara, presso il cinema Apollo) è come il precedente Encerrados – viaggio socioantropologico all’interno di oltre settanta carceri del Sudamerica – la chiave di lettura per raccontare un continente.
I due progetti, realizzati parallelamente, sono caratterizzati dalla stessa determinazione dell’autore nel narrare le fragilità degli uomini e il vortice di buio che li attanaglia. Immagini crude di miseria, disperazione, ingiustizia e consolazione artificiale davanti alle quali Bispuri si pone con un distacco che non è mai assoluto. «Mi ritengo molto più un giornalista che un artista. Anzi quando mi chiamano artista mi sento un po’ fuori luogo, perché la mia idea di fotografia è sempre d’indagine».

In Paco. A drug story è lo stesso fotoreporter ad accompagnare le fotografie a colori con delle note: «Lomas de Zamora è una delle periferie di Buenos Aires più colpite dal paco. Ragazzini tra i dieci e i ventidue anni si muovono come lupi tra vicoli bui, la pelle consumata, magri, affamati, le labbra spaccate, lo sguardo fisso nel vuoto. Non ci sono regole o leggi, l’unico e il solo scopo è procurarsi quanti più ’sassolini’ possibili».
I «sassolini» sono le dosi di paco, una terribile droga che dà assuefazione anche a distanza di anni, ottenuta con gli scarti della lavorazione della cocaina miscelati a cherosene, colla, veleno per topi o polvere di vetro. Bastano pochi secondi per raggiungere «il piacere di fumare la morte», come scrive il giornalista César Gonzalés nelle pagine del libro: arrivare a fumarne anche venti dosi al giorno porta alla totale distruzione. Un fenomeno drammatico, ancora poco conosciuto oltreoceano, che ci costringe ad aprire gli occhi, sfidando quell’ostinata indifferenza che non è meno letale.

Come è nato il progetto sul «paco» cui ha lavorato negli ultimi quindici anni?
Si è trattato di chiudere un capitolo su un tema apparentemente conosciuto come quello della droga. In questo caso di una droga che si chiama paco. La sua particolarità è la distruzione a cui conduce. Viene fabbricata con i residui della cocaina, quindi è un concentrato di cocaina con un effetto venti volte più forte di una dose di quella droga. Dura pochissimi secondi e dà una dipendenza totale. In un anno, un anno e mezzo, si arriva alla totale devastazione fisica e mentale con la pazzia o la morte. È una droga che sta disintegrando una grande popolazione dell’America del Sud, soprattutto ragazzi, ed è in grande espansione. Paco è nata dalla crisi economica che ha colpito l’Argentina nel 2001, quando lo stato è crollato e anche i narcotrafficanti si sono dovuti in qualche modo adeguare all’economia, inventandosi questa droga. All’inizio era considerato lo sballo dei poveri, perché una dose costa 50 pesos, che sono circa due euro. Il suo prezzo è rimasto invariato, ma nel tempo il suo uso si è espanso anche nella classe medio borghese ed è uscita già da tempo dall’Argentina diffondendosi in Brasile, Cile, Paraguay.

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La pubblicazione del libro sancisce la conclusione delle sue ricerche?
Sì. Il lavoro che è durato tanto tempo perché credo che nella fotografia sia necessario andare in profondità. Bisogna capire prima di raccontare. Da anni non accetto più incarichi dai giornali proprio perché ritengo che in due settimane, o anche un mese, non si possano narrare tematiche complesse. In questo caso, avevo sentito parlare di quella droga e ci sono entrato dentro per capire, parlando sia con le persone che aiutano i ragazzi che ne fanno uso che con i consumatori stessi, quando non erano sotto effetto. È stato un processo lungo e stressante. Penso che in questo momento la fotografia abbia bisogno più di contenuto che di estetica.

Qual è il punto centrale del suo racconto visivo?
Essere riuscito a entrare in una cucina dove si prepara il paco. È stato un lavoro d’indagine e contatti che è durato quasi due anni, perché chiaramente i narcotrafficanti non volevano assolutamente che un fotografo profanasse un luogo del genere. È stata un’esperienza molto forte. Ci sono riuscito nel 2015: era una domenica in cui si disputava una partita di calcio tra due squadre importanti di Buenos Aires, Boca Juniors e River Plate, e anche i narcotrafficanti erano presi dalla partita. Sono stato bendato e portato nella periferia estrema di Buenos Aires.

Tra gli altri progetti a cui lei si dedica parallelamente, oltre a quello sulle carceri italiane ce n’è uno sulla tratta delle donne in Argentina e un altro sui sordo-muti…
La più grande sfida a livello fotografico è esplorare il mondo dei sordo-muti. Per affrontare questo tema sto anche cambiando il mio modo di fotografare. Raccontare qualcosa che è invisibile è come rappresentare il silenzio. Sto lavorando principalmente a Roma, ma in fondo non è tanto importante il luogo quanto l’interiorità. Un’altra problematica drammatica è quella della tratta delle donne in Argentina. Sono migliaia, infatti, le donne che spariscono ogni giorno. Si calcola che siano 20 o 30mila negli ultimi trent’anni, più dei desaparecidos della dittatura. Vengono rapite e portate nei postriboli clandestini. Ce ne solo 1200 solo a Buenos Aires, ma non si sa dove si trovino.
Sono in contatto con ragazze che sono riuscite a scappare che, ancora traumatizzate, raccontano storie a loro accadute incredibili. Anche qui il punto centrale sarà quando riuscirò ad entrare in un postribolo clandestino. Bisogna sempre avere l’idea di quello che si vuole dire e avere in mente i punti con cui strutturare la storia. Poi, però, c’è l’istinto, l’inconsapevolezza nel momento stesso in cui si scatta, insomma quel qualcosa che rompe le corde della precisione del narrare. D’altronde, la vita è fatta d’istinto, di sfocati.