Nei quasi tre anni che ci separano dal 23 marzo 2016, la squassante virulenza con cui la British exit si è abbattuta sulla Gran Bretagna – scavando un fossato nelle famiglie, nelle coppie e nella società in generale, rimescolandone pubblico e privato e riscoprendo una dimensione politica del reale in realtà mai venuta meno – ha prodotto un gettito di lavori che cercano di descrivere, analizzare, criticare quello che è evidentemente uno psicodramma identitario collettivo. In un Paese dal soft power (inutile anglicismo che “riscopre” la buona, vecchia egemonia gramsciana) dominante, la cultura popolare si è immediatamente fatta interprete del subbuglio politico ed emotivo che attraversa la società britannica attraverso una sequela di romanzi, film e documentari usciti di recente. Qui ci si limiterà a elencarne e descriverne qualcuno.

«La cinematografia è l’arma più forte» secondo il noto adagio totalitario: ne erano ben consci gli euroscettici dietro a Brexit: The Movie, film che sosteneva il fronte del leave reso possibile dalla benigna convergenza di un crowdfunding di ferventi cittadini euroscettici e della donazione cospicua di un fondo di investimento. Uscito nel 2016 prima del referendum, non ha certo lasciato un marchio indelebile nell’immaginario collettivo. Consta di un assemblaggio di luoghi comuni sulla presunta asfissia burocratica di Bruxelles e di quanto questa danneggiasse le mirabili potenzialità di un capitalismo britannico liberato e deregolato. Nonostante la grossolanità – contiene un rimando alla rivoluzione industriale come exploit tutto dovuto all’innovazione e alla mano invisibile, dove puntualmente brilla per la sua assenza lo sfruttamento del lavoro minorile e non – è comunque uno sguardo utile sull’ideologia sottesa alla scelta di lasciare l’Ue nel nome di un demagogico Make Britain Great Again.

Di ben altra caratura è Inside Europe, 10 Years of Turmoil (Dentro l’Europa: dieci anni di scompiglio), non a caso a firma Bbc. E che reca il marchio di fabbrica del servizio pubblico d’informazione britannico: accesso diretto ai protagonisti in interviste sensazionali, apparente assenza di partigianeria, montaggio, narrazione e suono eccellenti.

La prima delle tre puntate in particolare mostra chiaramente come le scelte disastrose di David Cameron e la secolare guerra civile interna dei conservatori sull’Europa precipitassero nella crisi dell’eurozona.

L’intervista a Donald Tusk – fra quelle di Nicolas Sarkozy, Mark Rutte, George Osborne, tanto per nominare i più importanti – è la più illuminante in questo senso. Tusk candidamente ricorda come durante i colloqui intercorsi prima del referendum David Cameron – figura oggi in bilico fra il pubblico ludibrio e il pubblico scherno – gli avesse confidato che non ci sarebbe mai stato un referendum, giacché i liberal democratici – allora in coalizione coi Tories e fortemente eurofili – non gliel’avrebbero permesso. Salvo poi vincere del tutto inaspettatamente le elezioni del 2015 e trovarsi con le spalle al muro. Il resto è storia.

Altro titolo che vale la pena citare è senz’altro Brexit The Uncivil War, film per la tv che vede il divo Benedict Cumberbatch interpretare in modo assai convincente Dominic Cummings. Questi, stratega della comunicazione della campagna per il leave e inventore del famigerato slogan Take back control (riprendiamoci il controllo) è riuscito a coagulare quel misto d’illusione, rimpianto e velleitarismo sia nel nord operaio deindustrializzato e impoverito, sia nel prospero sud piccolo-borghese e farli entrambi confluire nel 52% dell’exit. Cummings è lo spin doctor per eccellenza, un Alastair Campbell (responsabile della comunicazione di Tony Blair) 2.0 e simbolo della totale metamorfosi della politica contemporanea in un Frankenstein di gergo pubblicitario, indagini di mercato e sondaggismo compulsivo.

Per concludere questa sommaria rassegna, non si può omettere un romanzo. Non è che una delle tante opere letterarie stimolate da questo passaggio epocale, ma merita menzione anche solo per la popolarità del suo autore: Jonathan Coe è infatti uno dei narratori “leggeri” più godibili e noti della sua generazione e con Middle England, uscito in Italia per Feltrinelli, presenta ai suoi aficionados l’ultimo capitolo in un trilogia che segue le vicende di un gruppo di compagni di scuola sullo sfondo degli accadimenti di storia e di cronaca britanniche egli ultimi trent’anni. Le oltre quattrocento pagine di questo romanzo coprono il decennio dalla crisi finanziaria del 2008 al referendum. Il libro si è immediatamente guadagnato l’impegnativo titolo di “grande romanzo della Brexit” ed è un vasto e garbato affresco dell’Inghilterra, appunto di mezzo: bianca, middle class, oscillante fra la grettezza dell’euroscetticismo di destra e l’ipocrisia delle “èlite” liberal di centrosinistra.