Sul manifesto del 1 novembre scorso, il senatore Luigi Manconi ha evocato l’importanza, nella sfera pubblica, delle risorse e del metodo del pensiero razionale. I quali ci impongono, intanto, di ragionare distinguendo. Se una persona, come me, è a favore dello jus soli, questo la impegna anche a condividere l’opportunità che il governo, per risolvere la partita, metta la fiducia sul provvedimento? Lo ha proposto, poco tempo fa, il ministro Marco Minniti.
Per quel che vale, dirò che io non lo penso. L’abuso del ricorso del governo alla prassi della questione di fiducia è una grave caratteristica della nostra vita istituzionale; parlo di abuso, perché, se è certamente legittimo che il governo possa e voglia saggiare la persistenza del rapporto fiduciario, altra cosa è utilizzare la fiducia per sopprimere il dibattito in aula, se del caso racimolando una maggioranza qualsiasi.

Nella precedente legislatura è stata, purtroppo, coronata la tesi per cui la conversione di un decreto legge (che da tempo si conclude tipicamente con maxi-emendamento più fiducia) è un procedimento derogatorio, speciale rispetto a quello legislativo normale, e nel quale sono ammissibili, se non necessarie, intense limitazioni del potere emendativo del parlamento. Oggi mi pare che paghiamo il costo di questa tesi, quando vediamo il procedimento normale diventare l’equivalente di uno sbrigativo procedimento di conversione del decreto legge. Recente è l’esempio dell’approvazione della legge elettorale in senato con soli voti di fiducia. Abbiamo conosciuto casi in cui il governo, pur venuto meno l’ostruzionismo, ha posto la fiducia su un proprio emendamento interamente sostitutivo di un disegno di legge di origine parlamentare, comportandone sostantive modificazioni (accadde con la legge sulle unioni civili), con il che una tecnica che era tipica dei provvedimenti economico-finanziari – una legge fatta di un articolo unico e svariati commi – è sbarcata nel campo dei diritti civili. Vi è il rischio che dire «mettiamo la fiducia» possa significare: cambiamo il provvedimento all’ultimo momento, ad esempio per renderlo accettabile a questo o quel pezzo della maggioranza, senza dare il tempo ai parlamentari – tanto meno all’opinione pubblica – di ragionarne, e in più confezionando testi di cattiva, o pessima, leggibilità per i cittadini, attuali o futuri, che ne sono i destinatari.
Tutto questo non è molto razionale.

Se si vuole fare appello alla logica «riconoscere i diritti val pure qualche strappo alle regole» occorre misurarsi – razionalmente – con i rischi che quella logica porta con sé. Le regole – per esempio quelle della procedura parlamentare – sono i diritti di tutti. Esse possono certamente essere derogate dai partiti in parlamento, tenendo conto delle concrete circostanze, e anche in vista di pure strategie politiche, ma rimanendo in ciò che è consentito dai principi sotto cui si dispiega la politica; il primo dei quali è il pluralismo. È l’eterno problema della giusta misura, che in fondo è una base della razionalità occidentale.
È molto importante che la società faccia sentire il suo peso; la legge sullo jus soli potrebbe essere tradotta nel racconto in cui «estese alleanze sociali e civiche» risvegliano le «sorde e impermeabili istituzioni politiche (partiti compresi)», che scrive Manconi. Peraltro, il trionfo di istanze autonome dalla politica, o che tali si definiscono, non può che avvenire sotto l’ombrello dei partiti e dentro le istituzioni politiche dato che di approvare una legge si tratta.
Perciò preme molto che il richiamo alla società civile non corrobori una narrativa che riduce le istituzioni a vuoti inutili simulacri, in cui, afferma Manconi, non si fa che porre insensati «veti».
Nella dicotomia tra vitalismo della società e letargia delle istituzioni a pagare è il diritto della nazione di essere rappresentata nelle forme costituzionali; svanisce il dovere di responsabilità politica che è al centro del nesso fiduciario. Governo e parlamento siano reciprocamente corretti e leali. Mi pare la rivoluzione che in Italia aspettiamo da sempre.