Il voto americano è ormai entrato nella politica italiana: per scongiurare il rischio populismo dilagante meglio votare Sì. Dopo le avanzate delle destre in alcuni paesi dell’Europa continentale e dopo la Brexit preoccuparsi è giusto, ma fare una lettura di comodo di quelle elezioni può favorire le destre, invece di combatterle. Vediamo, allora, meglio e schematicamente cosa è accaduto negli Usa.

I votanti sono stati 128 milioni, poco meno dei 129 milioni del 2012. Ma i due principali partiti hanno perso quasi cinque milioni di voti mentre le terze forze sono passate da 2 ad oltre 6 milioni. Il bipolarismo comincia a stare stretto anche agli americani.

I democratici hanno perso cinque milioni di voti ed i repubblicani solo seicentomila. La Clinton ha preso seicentomila voti più di Trump, ma per il particolare meccanismo elettorale che assegna i grandi elettori in ciascuno Stato interamente al partito vincitore, la Presidenza è andata ai repubblicani. Quindi non di vittoria di Trump si tratta, ma di una sonora sconfitta della Clinton che ha causato la perdita di sei stati democratici, a favore dei repubblicani. Ma anche del combinato disposto con un sistema elettorale che in alcuni casi (era già accaduto con Al Gore-Bush) produce distorsioni della rappresentanza.

C’erano 27 Stati in cui i democratici avevamo la maggioranza. In 21 i democratici, pur perdendo tre milioni di voti, hanno conservato la maggioranza perché lì i repubblicani non hanno fatto meglio ed hanno perso anche loro 2 milioni di voti. Negli altri sei i democratici hanno perso un milione centomila voti, i repubblicani ne hanno guadagnati un milione, ma hanno preso la maggioranza in tutti e sei, mentre i democratici non sono riusciti a sottrarre nessuno stato ai repubblicani.

La chiave di quanto è accaduto sta tutta qui. Non un terremoto elettorale, ma pochi voti in più presi nei punti giusti.

Le analisi del voto dicono che i comportamenti elettorali strutturali tradizionali permangono: gli elettori a basso reddito votano ancora in maggioranza democratici, così i giovani, così i neri ed i latino americani; sull’altro versante, i repubblicani predominano nettamente tra i bianchi, e soprattutto tra quelli protestanti e ricchi, oggi come sempre negli ultimi cinquanta anni. Che cosa, allora ha determinato i risultati? Due fattori: riuscire a trattenere il proprio elettorato, fare incursioni mirate nel campo avversario. Trump è riuscito a fare questo: ha massimizzato il voto nelle aree tradizionalmente repubblicane, ha attratto anche elettori democratici. E questo è accaduto soprattutto nelle aree di crisi che stanno pagando il prezzo della globalizzazione. In sistemi con concentrazione storica dei voti in pochi partiti la conquista di elettori dell’altro campo è importante, ma solo se e quando i partiti riescano a curare e conservare il proprio elettorato.

La crisi che sta attraversano il mondo dei paesi avanzati mette sempre di più in discussione gli assetti bipolari tradizionali ed apre la strada a componenti nuove che si collocano oltre le tradizionali divisioni destra-sinistra, progressisti-conservatori.

Il fatto che i fenomeni populisti stiano scuotendo le aree avanzate dell’occidente ci deve spingere a riflettere sul carattere strutturale della crisi iniziata nel 2008. I paesi avanzati che hanno sospinto il processo di globalizzazione verso la massima circolazione di merci e capitali, si trovano, oggi, sgomenti ed impreparati, davanti alle naturali conseguenze di quel processo: migrazioni, disuguaglianze, disoccupazione. Non è un caso che la scossa sia più visibile proprio nei paesi guida e simbolo del neo liberismo – Gran Bretagna prima ed Usa adesso – e che essa avvenga proprio quando quei processi si sono avvicinati al limite massimo raggiungibile. Quando la liberalizzazione si estende oltre a merci e capitali anche alle regole della produzione e del consumo ed ai servizi, sancisce il dominio degli interessi delle imprese sugli Stati – simbolo il Ttip – implica la libera circolazione delle persone. Si trovano in casa la contraddizione: hanno al loro interno le aziende avanzate dell’economia digitale e le centrali della finanza, ma anche i disoccupati prodotti dalla crisi della manifattura e dai processi di automazione e gli immigrati che abbassano il prezzo del lavoro. Insieme le due facce della medaglia della globalizzazione.

In queste fasi storiche accade che gli interessi dominanti si chiudano a difesa e che si inneschino processi di ritorno indietro verso egoismi ed identitarismi, di nazione e di etnia. Il rischio, quindi, c’è. Ma non si esorcizza gridando al mostro in agguato ed inseguendolo sul terreno del populismo, vecchio o nuovo che sia, di governo o di opposizione. Il problema richiede una nuova globalizzazione, di diritti e condizioni materiali, una ricomposizione sociale e politica, la costruzione di un grande fronte democratico, una politica che unisce. È la lezione che ci viene dagli Usa. Altro e oltre i Sì e il No al referendum.