-Sei uno dei maggiori produttori europei di cinema che potrebbe definirsi “di ricerca”, “di pensiero”, “d’arte”, lo si chiami come si vuole, in ogni caso un cinema contemporaneo indipendente, intransigente, in cui stile e linguaggio, senso e tensione artistica ed etica riempiono di senso il fare cinema. Hai prodotto due degli ultimi capolavori di De Oliveira e autori tra i più interessanti e premiati delle nuove generazioni: Kawase, Serra, Apichatpong Weerasethakul, Guerín… Questo progetto con Fabrizio Ferraro Gli indesiderati. Europa! è il tuo primo con un cineasta che è italiano ma al di fuori di ogni “prevedibilità” italiana e da sempre in sintonia con la grande cultura del moderno europeo. Un film che a quanto pare pone al centro un sentiero che non è solo quello dei Pirenei, nella crucialità dell’Europa devastata dai fascismi, ma che è l’incrocio filosofico, artistico, politico, etico che fonda il moderno, a cominciare da una delle figure più emblematiche di questa fondazione, Walter Benjamin. Un pensatore che ha posto con forza la potenza di conflitto delle e fra le immagini ( come anche Warburg). Come è nato il progetto ( che fin dal titolo mette in questione la forza del desiderio )? E che cosa ti ha spinto ad aderirvi?
Non so se sono uno dei maggiori produttori indipendenti europei. Quello che so con certezza è che il cinema deve rivendicare una responsabilità estetica e sociale. Le immagini sono importanti, non sono un mero dettaglio. Le immagini fanno parte dell’inconscio collettivo e, come tutto ciò che facciamo, lasciano un segno. Le immagini parlano. In quanto produttore e cineasta, sento la responsabilità di dare senso a tutto ciò che faccio. In Spagna c’è chi mi definisce un “agitatore culturale”. A me sembra un’esagerazione: il problema è che tutto ciò che sfugge alla volgarità, svetta sul resto. Se io sono un’anomalia, cosa dovremmo dire di intellettuali come Pasolini?
Il progetto, come spesso capita, è nato dall’intuizione prima che dalla ragione. Conosco la filmografia di Fabrizio Ferraro e mi interessa soprattutto la radicalità del suo sguardo. Detto ciò, ho considerato il progetto de Gli indesiderati. Europa! anche per i suoi vincoli con la storia collettiva spagnola. Le ferite della guerra civile sono ancora aperte: la transizione “democratica” è stata una farsa. Inoltre, si tratta di un film sul presente, sulla crisi che ci attanaglia, sui movimenti migratori. I repubblicani spagnoli che chiesero asilo alla Francia democratica furono trattati alla stregua di prigionieri politici. Un po’ come i migranti di oggi…

-Potrebbe questo essere un film che mette in questione le frontiere e i limiti? Hai avuto modo di dichiarare che ciò che ti interessa del cinema contemporaneo è una divaricazione, un superamento dei confini tra finzione e documentario, verso una forma forse quanto più possibile “impura” (nel senso di Bazin), e che possa mescolare i tempi, gli spazi, i modi di filmare, le espressioni e le riflessioni anche filosofiche ( penso al cinema di De Oliveira, naturalmente, ma anche a quello di Serra e di Guerin). Di fronte a questa tendenza, che assume sempre maggior peso e significato oggi, quale deve essere l’atteggiamento di un produttore, e quale è il tuo pensiero e il tuo modo di rapportarvisi?
La verità del cinema si trova nello spazio tra fotogramma e fotogramma, anche quando si gira in digitale. La libertà creativa vive al margine delle etichette. Molto spesso, nella contaminazione, nel meticciato, risiede una verità molto più contundente di quella che abita un business plan. La nostra società è il trionfo del chiasso. Nel cinema di Fabrizio Ferraro, come anche in quello di Erice, Guerín e Serra, a parlare sono i silenzi.
Sull’atteggiamento di un produttore, a ciascuno il suo.

-Che cosa pensi degli esponenti italiani di questa tendenza? (Cito quello che a me sembrano i più interessanti, insieme a Ferraro : Michelangelo Frammartino, Giovanni Cioni, Pietro Marcello, Leonardo Di Costanzo…)
Questi sono precisamente i cineasti italiani che mi interessano. Mi piacerebbe che Frammartino facesse più film. Al contrario, trovo eccessivi i consensi verso proposte come La grande bellezza, che attinge senza ritegno all’immaginario del grande cinema italiano. Detto questo, la cinematografia contemporanea che sento più prossima è quella portoghese: Pedro Costa, João Pedro Rodrigues, Teresa Vilaverde, Canijo, Gomes, Botelho, Mozos, Nicolau, Lamas…

-Fabrizio Ferraro è sicuramente tra i cineasti che prima ho citato forse tra i più attenti alla “materia di pensiero” di un film, e alla coerenza suo senso etico, in qualche modo il più radicale. Che cosa ti ha interessato del lavoro filmico di Fabrizio Ferraro?
Mi interessa soprattutto il suo modo di relazionarsi con i concetti di tempo e spazio. È un cineasta decisamente “benjaminiano”.

-Tra i film che hai prodotto sembrano esserci degli echi e delle analogie, pur nella loro diversità. Una di queste potrebbe essere il senso del paesaggio e insieme la memoria dei corpi, sentiti come “fantasmi” riportati in vita ( penso ancora a De Oliveira e a Guerin, ma anche a Weerasethakul e a Serra). Che ne pensi? E a questo proposito che cosa ti convince maggiormente a produrre un film, e come intendi il processo di sviluppo e costruzione di un progetto?
Mi pare un’intuizione interessante. Ad oggi ho prodotto o co-prodotto trentasei film che sembrano dialogare fra loro. Non conosco esattamente la ragione di questo dialogo. È un mistero. Parafrasando Spinoza, “il caso è la maschera del destino”. La butto lì: e se l’autorialità fosse prerogativa anche di un produttore?

-Che rapporto hai come produttore (che viene da una terra così intensa nei termini di luce e di atmosfera come è la Catalogna) con la ricerca dei luoghi dove verrà girato, con l’aura , per dirla con Benjamin, di quei luoghi?
Della Catalogna, che considero la mia terra, amo in particolar modo la sovrapposizione di seny e rauxa, ovvero razionalità e follia. Quest’aura abita precisamente il paesaggio dei Pirenei catalani: la tramontana, i vigneti, la salsedine… Una certa aria di frontiera (anche mentale), di terra di nessuno… Nel 2003 in questa zona avevo già prodotto un film di Marc Recha: Les mains vides. Sono luoghi che appartengono a chiunque si senta identificato con l’immaginario del Mediterraneo.