Come spieghi che, in una democrazia, una persona è scomparsa dopo esser stata arrestata e nessuno dei responsabili è stato punito?». È anche per rispondere a una domanda inevasa di verità e giustizia che Miguel Ángel Llamas e Amaia Merino hanno realizzato il film Non dago Mikel?, presentato al Festival di San Sebastián e uscito nelle sale spagnole il 26 febbraio.

Nel documentario lo scrittore basco Ion Arretxe, scomparso nel 2017 a soli 52 anni, racconta la terribile esperienza vissuta in prima persona: «Erano passati solo dieci anni dalla morte di Franco, e dopo la santa Transizione ci trovavamo teoricamente in una democrazia consolidata. Erano diventati tutti buoni, anche quelli che avevamo visto fucilare la gente ai tempi della dittatura (…). Era molto difficile far capire alla gente che ti avevano torturato».

Il 26 novembre 1985, all’alba, il 21enne Ion fu arrestato dalla Guardia Civil insieme a Mikel Zabalza, un autista di autobus di Donosti. Nella retata scattata dopo un attacco dell’ETA costato la vita a tre militari, furono arrestati anche la fidanzata di Mikel, Idoia Aierbe, e suo cugino. I detenuti furono condotti nella famigerata caserma di Intxaurrondo (un quartiere di Donostia) e sottoposti alla incomunicación, il completo isolamento previsto dalla legislazione antiterrorismo. Dopo alcuni giorni, tornarono a casa. Tranne Mikel; di lui nessuna traccia. Desaparecido. Per venti giorni famiglia e amici fecero di tutto per trovarlo. I suoi compagni di sventura lo avevano visto nelle stanze della caserma e avevano udito le sue grida. La Guardia Civil raccontò che era scappato dopo esser stato condotto a individuare un zulo, un nascondiglio dell’ETA. All’ennesima richiesta di informazioni da parte della madre, un comandante della Benemerita la invitò a rivolgersi all’ufficio oggetti smarriti.

Il 15 dicembre il corpo senza vita di Mikel, ancora ammanettato, fu ritrovato nel fiume Bidasoa. Iniziava per la famiglia un calvario di sofferenza che dopo 35 anni non si è ancora concluso. «La verità la conoscono tutti, ma non abbiamo avuto giustizia» commenta la sorella Idoia. I tribunali, e solo grazie alla costante pressione esercitata dalla famiglia e dalla comunità, hanno per due volte aperto un’inchiesta che però hanno chiuso, l’ultima volta nel 2010, senza risultati: la versione ufficiale è che Mikel morì annegato nel fiume nel tentativo di fuga. Eppure al giornalista José Macca (Diario 16) l’ex poliziotto Vicente Soria raccontò di aver visto il corpo di Zabalza in un ascensore della caserma di Intxaurrondo, mentre due reporter del quotidiano (di centrodestra) El Mundo giunsero alla conclusione, nel 1995, che i responsabili della morte del ragazzo furono Enrique Dorado e Felipe Bayo, due agenti condannati per il sequestro e l’omicidio dei due militanti dell’ETA Lasa e Zabala.

L’ennesima conferma l’ha fornita la registrazione di una conversazione tra l’allora colonnello dei servizi segreti Perote e il capitano della Guardia Civil Gomez Nieto, collaboratore del generale Galindo, uno dei massimi responsabili dei GAL, gli squadroni della morte che negli anni ’80 si dedicarono – per conto del governo del socialista Felipe González – a sequestrare, torturare e uccidere, anche con attentati indiscriminati, decine di membri dell’ETA veri e presunti. Lo spezzone di un dialogo, che i giudici hanno valutato non interessante, conferma che la morte del giovane è avvenuta probabilmente per un arresto cardiaco provocato dalle ripetute sessioni di bolsa, metodo di tortura (alternato al waterboarding) consistente nell’applicare sulla testa della vittima una busta di plastica per provocare il soffocamento. «Hanno commesso molti errori – dice Gomez Nieto nell’audio pubblicato per la prima volta da Público il 22 febbraio – Li interrogavano e tenevano i familiari nella stanza accanto».

La tortura, nel Paese Basco, è stato «un metodo di contrasto al terrorismo» impiegato in maniera sistematica anche in democrazia. Un dossier elaborato dal medico forense Paco Etxeberria per conto del governo basco ha documentato 4113 casi di tortura dal 1969 al 2014 nelle tre province. In Navarra, altro territorio basco, le stime più serie parlano di altri mille casi.

Quando Arretxe descrive le violenze subite da parte della polizia, lo spettatore ha la sensazione che lo scrittore parli anche per conto di Mikel. Per lo scrittore la tortura aveva tre obiettivi: estorcere informazioni, distruggere psicologicamente e umiliare la vittima, avvisare il suo entorno politico e sociale sulle nefaste conseguenze di una scelta di campo a favore dell’insorgenza basca. Non era necessario militare nell’ETA per finire nel mirino della repressione: si sono messi fuorilegge partiti politici e associazioni, si sono chiusi manu militari radio e quotidiani, si sono imprigionati giornalisti come Otamendi, anch’egli sottoposto a tortura dopo la chiusura del giornale – Egunkaria – che dirigeva. Zabalza, per stessa ammissione dell’allora ministro dell’Interno, non faceva parte di nessun commando e non era neanche un simpatizzante dell’organizzazione.

Lo stesso regista Miguel Ángel Llamas fu arrestato nel 2011 per un anno e mezzo, proprio mentre iniziava a lavorare alla realizzazione del film, in un’operazione diretta a disarticolare un sito d’informazione alternativa.
Paradossalmente, gli autori hanno deciso di non includere nel film l’audio che conferma la responsabilità delle forze dell’ordine nella morte di Mikel, lasciando che lo spettatore si faccia guidare dal racconto e dai sentimenti per formarsi un’opinione definitiva. D’altronde, hanno spiegato, anni di riprese e testimonianze non possono essere compressi in un unico lavoro. Così molto materiale è stato utilizzato per dar vita a una web-serie collaterale, intitolata Galdutako objektuak (“Oggetti smarriti”).

Alla prima di Non dago Mikel? a Madrid hanno assistito il vicepremier spagnolo Iglesias e la Ministra Montero. L’eco del film, sperano i registi, potrebbe contribuire a far riaprire l’inchiesta e permettere alle giovani generazioni di riscoprire questa pagina buia della loro storia. Rimane il fatto che né Mikel né i suoi familiari siano stati ancora riconosciuti dallo Stato come vittime di alcun tipo di violenza.