Nel 1988 il disintegrarsi della ex Jugoslavia era nell’aria ma nessuno avrebbe osato immaginare che il riaffiorare dei nazionalismi identitari si sarebbe trasformato in genocidio e pulizia etnica. L’abolizione definitiva da parte del parlamento serbo dell’autonomia a maggioranza albanese del Kossovo crea le premesse per un conflitto violentissimo che inizia nell’aprile del 1992 con i primi attacchi delle milizie serbe a Sarajevo e che si conclude, ufficialmente, il 14 dicembre 1995 a Parigi con la firma degli accordi di Dayton. Srebrenica ha conferito alla dichiarazione di Stjepan Mesi «la Jugoslavia non esiste più» un significato che l’ultimo presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia non poteva nemmeno lontanamente immaginare nel dicembre del 1991.

Figlio di nessuno, premio del pubblico alla Settimana della Critica e del premio Fipresci alla Mostra del cinema di Venezia, ispirato a fatti realmente accaduti, inizia nel 1988. Un ragazzo allevato dai lupi viene ritrovato da un gruppo di cacciatori. Riportato fra gli umani, Haris (l’ottimo Denis Muric) deve imparare a camminare eretto, a parlare e a vivere fra i suoi simili in un orfanotrofio di Belgrado. L’impianto allegorico del film è evidente, ma il regista Vuk Ršumovic, pur all’interno di una scansione narrativa che rispetta i conflitti che inevitabilmente ostacolano il reinserimento di Haris, opta per una prossimità a fior di pelle nei confronti del protagonista, creando così momenti di forte tensione (l’istruttore che prova invano a infilare le scarpe al ragazzo), di lunare sospensione (il giocare notturno con la biglia in prossimità del fascio di luce trapelante da sotto la porta) o ironici (il giuramento di fedeltà secondo i principi dei pionieri).

Molto abilmente il regista inserisce la notazione etnica di Haris in un cruento scambio di battute, cosa che serve a segnalare il progressivo aumento della temperatura conflittuale. La struttura del film si rivela compiutamente con l’entrata in scena del conflitto armato. L’educazione di Haris è completa. Deve sparare come i suoi simili contro i suoi simili che stanno dall’altra parte. Ršumovic, abilmente, affida a pochi gesti essenziali e al crepitare rabbioso delle armi quest’ultima trasformazione. La vita, quella cui Haris è stata strappato suo malgrado, non è mai stata così lontana.

Dopo un cruento conflitto a fuoco, nel quale perdono la vita tutti i suoi commilitoni, Haris, in un impeto estremo di disubbidienza salvifica, si cava gli stivali infangati e tenta di respirare a pieni polmoni l’aria della foresta. Un lupo lo osserva da lontano. Ršumovic sa bene che il cerchio, o il ciclo della vita, una volta spezzato, non può essere ricomposto.

Dall’orizzonte dello sguardo di Haris scompaiono sia gli uomini che i lupi. Al ragazzo-lupo cui gli uomini non hanno permesso di diventare adulto, spetta un nuovo inizio.
Il più difficile di tutti. Morire come «identità» e rinascere come uomo. Figlio di nessuno, come Nemico di classe, è un apologo allegorico che riesce a sottrarsi alla forza della gravità del sotto testo in virtù di un forza filmica assolutamente non banale.